giovedì 25 giugno 2015

Da noi tutto è più difficile, non solo per colpa dello Stato


Ieri, a Cadoneghe, un comune alle porte di Padova, si è avuto l’ennesimo suicidio di un imprenditore. Il caso ha suscitato maggior clamore rispetto a quelli precedenti per la notorietà e il rilievo della persona. Egidio Maschio era, infatti, un grande imprenditore, il fondatore e l’artefice del successo di un’azienda leader mondiale nel proprio settore, quello delle macchine per le lavorazioni agricole, impresa che porta il suo nome: Maschio Gaspardo.

Sul Corriere del Veneto, inserto regionale del Corriere della Sera, c’è un editoriale firmato da Romolo Bugaro, scrittore padovano che ha dedicato ampio spazio nei suoi lavori alla realtà veneta, inclusa quella di una classe imprenditoriale che, dagli anni 50 del secolo scorso, ha realizzato un formidabile processo d’industrializzazione.
Buona stampa. Direi, anzi, ottima. Bugaro fa con garbo e acume il suo lavoro di scrittore e ci fa intuire cosa ci sia dietro una vicenda umana sulla quale non intendo certo aggiungere nulla.
A me preme, invece, riflettere sugli aspetti economici che, a quanto è dato capire dalle notizie riportate oggi dai giornali, emergono dalla vicenda.
Il Gruppo Maschio Gaspardo, dalla fondazione nella stalla di casa era cresciuto fino a diventare, come dicevo, azienda leader mondiale nel proprio settore, con fabbriche e filiali commerciali sparse nel mondo. Una crescita continuata anche negli ultimi anni, nonostante la crisi e, a quanto pare, finanziata prevalentemente dalle banche che, di recente, avrebbero rivisto le proprie politiche di credito, irrigidendole, e imposto la nomina di alcuni dirigenti estranei alla famiglia, per esercitare un certo grado di controllo sull’impresa e tutelare la propria esposizione.
Ripeto, questo è quel che ho letto oggi sulla stampa. Sono portato a pensare che risponda al vero, ma non è un punto fondamentale nel mio ragionamento, che è un altro. Non intendo, dunque, attribuire alcuna responsabilità alle aziende di credito.
La mia tesi è che questa vicenda sembra confermare due aspetti che si alimentano l’un l’altro: la mancanza di mercati e strumenti finanziari evoluti, capaci di far affluire a ogni tipologia di azienda la quantità e la qualità di capitale necessario (rendendo meno essenziale il ricorso al credito bancario), e la scarsa o nulla propensione degli imprenditori italiani, in particolare quelli del Nordest, a rinunciare al controllo dell’azienda, tanto che arrivano a impedirne la crescita o a farla crescere in maniera squilibrata pur di non modificare la compagine sociale.
Ricordo bene lo spazio che quest’argomento aveva negli esami universitari che ho superato oltre trent’anni fa. Il tema era molto presente: aveva rilievo per l’economia aziendale, per l’economia bancaria, per la finanza aziendale, insomma, era un soggetto già allora molto studiato. E il messaggio forte era, appunto, che mancavano da un lato gli strumenti e dall’altro la volontà di usarli per far crescere il capitale delle aziende così che potessero svilupparsi in modo equilibrato, conquistando con maggior facilità e minori rischi nuovi mercati e raggiungendo dimensioni maggiori, adeguate a confrontarsi con la concorrenza internazionale.
Da allora le cose sono cambiate, non si può negarlo. Nuovi strumenti sono a disposizione delle aziende per finanziarsi senza ricorrere al credito bancario (o ricorrendovi in misura adeguata): dai segmenti per le medie imprese di Borsa Italiana all’intervento dei fondi di private equity o di venture capital, giusto per citare qualche esempio. Eppure questo non è bastato perché la mentalità degli imprenditori non è cambiata e, probabilmente, non è cambiata neppure quella dei banchieri. Gli uni e gli altri hanno continuato a guardare al mondo attraverso lenti vecchie, ormai inadeguate. I primi non si sono liberati dal desiderio di mantenere il controllo totale sulla propria azienda, incuranti degli effetti negativi che questo poteva comportare sulla capacità di crescita o sulla struttura del capitale. I secondi hanno continuato a privilegiare criteri di valutazione dei clienti basati essenzialmente sulla capienza del patrimonio personale e non sulle prospettive aziendali. Sia chiaro, l’argomento richiederebbe una trattazione assai più estesa e, quindi, devo necessariamente semplificare, ma sono persuaso di aver toccato in modo giusto i punti giusti (voi tre lo sapete che sono modesto, vero?).
Prima di passare alla musica, un’ultima osservazione sul tema del giorno e anche il recupero di un articolo che non vi ho segnalato ieri per ragioni di spazio.
Tra le condizioni che possono spingere un imprenditore a togliersi la vita, soprattutto in una fase economica di crisi prolungata come l’attuale, non possiamo trascurare il peso ossessivo degli adempimenti richiesti dallo Stato, non solo quelli fiscali. Ne accenna Bugaro nel suo pezzo, ma corre l’obbligo di sottolinearlo.
L’articolo che andiamo a recuperare è l’editoriale di ieri del Corriere, un fondo di Ernesto Galli della Loggia che affronta con grande lucidità il tema dell’immigrazione e dell’integrazione:
Buona stampa. Ogni mio commento sarebbe superfluo.
Oggi vi propongo nuovamente Jordi Savall, che è senz'altro un esecutore che mi piace molto. Lo ascoltiamo in alcune melodie tradizionali irlandesi, accanto a lui l'arpista Andrew Lawrence-King (https://it.wikipedia.org/wiki/Andrew_Lawrence-King).


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