mercoledì 30 ottobre 2019

Il protezionismo protegge?


Alcuni giorni fa, sul mio profilo Facebook, avevo condiviso queste parole dell’economista americano John Kenneth Galbraith: “La sola funzione delle previsioni in campo economico è quella di rendere l’astrologia un po’ più rispettabile” (“The only function of economic forecasting is to make astrology look respectable”). 



Sono parole, purtroppo, tutt’altro che prive di fondamento e valide ancor oggi, sebbene vecchie ormai di molti anni e scritte, credo, ne “Il Grande Crollo, 1929” (The Great Crash, 1929), prezioso volume dedicato da Galbraith, nel 1955, alla disastrosa caduta dei corsi azionari di Wall Street nell’ottobre di 90 anni fa, evento cui seguì la Grande Depressione, la lunga e devastante recessione che si estese quasi ovunque nel mondo con drammatiche conseguenze sociali.
Anche in anni recenti, purtroppo, si è avuta conferma della correttezza delle parole di Galbraith. Come la crisi del ’29, così quella del 2008 non era stata prevista da quasi nessun esperto economico. Tuttavia… Tuttavia accade che certi eventi economici non si presentino inattesi e, anzi, siano prevedibili e previsti. 
Un esempio è quello delle conseguenze che si sarebbero prodotte in seguito all’azione dell’amministrazione Trump in materia di scambi commerciali internazionali. La scelta protezionistica del Presidente degli Stati Uniti, prevedibilmente, è stata imitata dai leader di altri paesi, così che, negli ultimi due anni, si è avuta una contrazione dei flussi di merci tra le diverse nazioni.
Prevedibilmente, la diminuzione degli scambi ha originato una flessione delle economie di molti paesi, i cui trassi di crescita sono calati, in qualche caso anche molto, avvicinandosi a zero. A riguardo vi segnalo le previsioni contenute in un rapporto di Prometeia risalente a qualche mese fa: https://www.prometeia.it/news/highlights-rapporto-di-previsione-prometeia-marzo-2019.
Ne riprendo alcuni punti:

  1. Le tensioni commerciali tra Cina e Usa ancora il principale rischio per la crescita dell’economia mondiale (+3,2% nel 2019, +2,9% nel 2020), che rimane carica di incertezze. Non è comunque prevista una recessione globale, complici politiche monetarie più accomodanti.
  2. Il rallentamento dell’economia americana è destinato ad acuirsi (+2,2% nel 2019, +1,3% nel 2020). In Cina (+6% nel 2019, +5,3% nel 2020) prosegue il sostegno fiscale alla crescita, e con esso il rischio per la sostenibilità del debito.
  3. La frenata prospettata per l’economia mondiale e Usa non sarà neutrale per l’area euro, che manterrà una crescita inferiore al potenziale: +1,1% nel 2019 e +1,3% nel 2020. In sofferenza soprattutto il settore auto, in particolare in Germania.
  4. Nel medio periodo, dopo un rallentamento ciclico, progressiva convergenza di tutti i paesi verso la crescita potenziale. Pil 2022-2026: +3,2% all’anno nel mondo, +0,75% in Italia. Per rilanciare la crescita occorre puntare di più sugli investimenti.

Detto che i dati si stanno rivelando corretti, mi sembra opportuno attirare la vostra attenzione sull’ultima frase dell’ultimo punto che ho citato, perché si sottolinea l’esigenza di investimenti che contrastino i fattori depressivi della crescita.
Il ruolo degli investimenti come stimolo per la crescita è noto, tanto che il loro andamento, sia a livello nazionale che sovranazionale è oggetto di studio costante. Tra le istituzioni impegnate in questa attività di monitoraggio va indicata l’OCSE (o OECD, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che in questi giorni ha pubblicato il rapporto periodico sull’andamento degli investimenti esteri diretti (o FDI, l’acronimo in inglese), ovvero delle somme che in ciascuna nazione sono state investite da entità straniere. Una sintesi la trovate qui: http://www.oecd.org/investment/FDI-in-Figures-October-2019.pdf.
L’elemento chiave che emerge dal rapporto è il calo del 20% dell’ammontare degli investimenti diretti esteri nei primi sei mesi di quest’anno. Allo studio dell'OCSE dedica oggi ampio spazio Il Sole 24 Ore. Tra gli articoli mi sembra particolarmente interessante quello dell’economista Giorgio Barba Navaretti, purtroppo, come gli altri, non disponibile on line almeno per ora. Ne riprendo qualche passaggio. Il primo mette in evidenza la relazione tra investimenti e clima economico: “Il rallentamento degli investimenti è generale, soprattutto nel corso dell’ultimo anno, ed è il risultato (e la causa) inevitabile del rallentamento del ciclo. La caduta di quelli esteri dice qualcosa di più: significa che l’incertezza frena l’integrazione dei mercati e innalza invisibili ma ben percepibili barriere ai movimenti di capitale tra paesi”. 
Emerge con evidenza il fatto che la diminuzione degli investimenti genera, almeno in parte, sé stessa, con l’ovvia conseguenza che la tendenza negativa può essere corretta soltanto in presenza di condizioni favorevoli agli investimenti, molte delle quali oggi mancano e mancano soprattutto per il cattivo andamento degli scambi commerciali mondiali.
Un altro aspetto importante che evidenzia Barba Navaretti riguarda il mancato funzionamento di un meccanismo che, in generale, contrasta il calo degli FDI: la tendenza delle imprese a “saltare” i dazi commerciali. “Ossia investo in un paese per superare le barriere commerciali. Quindi se le barriere aumentano (il protezionismo) sono indotto a investire. In un mondo dove la produzione è profondamente integrata nelle catene globali del valore e dove le aziende devono importare componenti, questo meccanismo non funziona più. Le multinazionali hanno bisogno per operare in modo globale di mercati e commerci senza frizioni”.
Quindi la politica protezionista innescata da Trump agisce da freno non soltanto al flusso internazionale di merci, ma anche a quello degli investimenti e non favorisce la produzione industriale nel paese “protetto”. In altre parole, il protezionismo fa contrarre i trasferimenti di beni e di capitali tra stato protezionista e resto del mondo, ma nello stesso tempo non favorisce le imprese di quel paese, che, necessariamente, non producono e non vendono di più.
Va osservato, inoltre, che il calo degli investimenti non è identico nelle due direzioni: le imprese degli Stati Uniti hanno ricevuto una quota molto inferiore di capitali dall’estero, ma ne hanno trasferiti un importo sostanzialmente invariato rispetto al passato. Un altro obiettivo mancato per l’amministrazione Trump, che si aspettava maggiori investimenti domestici e minori investimenti esteri da parte delle aziende americane. E questo spiega perché il tasso di crescita americano si stia riducendo e perché Trump “martelli” quasi ogni giorno la Federal Reserve perché riduca ulteriormente i tassi, nella speranza che ciò favorisca la ripresa degli investimenti e quindi la crescita. Il che è piuttosto illusorio, anche perché la FED, sia pure timidamente, cerca di difendere la propria indipendenza. 
Un’altra osservazione di Barba Navaretti riguarda l’Europa, dove si hanno andamenti contrastanti: la Germania registra investimenti in aumento, la Francia stabili, mentre in Italia si è avuto un calo del 65%. Ecco le parole di Barba Navaretti a riguardo: “(…) la profonda instabilità politica fino alla crisi di governo ha congelato gli investimenti, sia interni che internazionali. Confermando ancora una volta che per investire ci vuole stabilità. Dovrebbero ricordarlo molto bene coloro che non perdono occasione per iniettare instabilità e incertezza nell’azione di governo”.
Una conclusione che altrove apparirebbe superflua, ma che, in Italia, non lo è affatto, vista la generalizzata superficialità con cui la classe politica si occupa dell’economia, in particolare dei fattori essenziali per la crescita. La sola cosa che interessa è trovare del denaro pubblico con cui comperare consenso.

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