lunedì 27 febbraio 2017

I'm no longer a New Yorker

Grazie alla generosità e alla lungimiranza di mio padre ho avuto modo fin da bambino di viaggiare sia in Italia sia all’estero. Avevo quattordici anni quando fui messo a bordo di un volo diretto da Venezia all’aeroporto londinese di Heathrow (era la seconda volta che volavo, la prima da solo). Certo, il personale di Alitalia mi tenne d’occhio e nel grande scalo di destinazione trovai ad accogliermi il responsabile della società italiana che organizzava il soggiorno in famiglie inglesi e i corsi di lingua, tuttavia quel viaggio rappresentò un momento importante nella mia adolescenza. Allora non ne compresi pienamente il valore, tuttavia il ricordo è indelebile e sicuramente associato a una dimostrazione di fiducia (non so quanto meritata) nei miei confronti.
Non dimentico certo il mio vicino di viaggio, un signore inglese di oltre cinquant’anni con il quale mi ritrovai a conversare, attingendo alla conoscenza della lingua, maturata sui banchi della scuola media e della quarta ginnasio, che si rivelava preziosa e insieme insufficiente. Ricordo la comprensiva pazienza con cui ascoltava le mie frasi traballanti, di tanto in tanto suggerendo o correggendo, sempre piacevolmente attento a quel che dicevo. O cercavo di dire.
Quello che seguì fu il primo di una serie di soggiorni all’estero, che mi portarono altre volte nel Regno Unito e poi negli Stati Uniti e in Canada.
Il periodo più lungo lo trascorsi a New York, nell’ormai lontano 1979: durò quasi quattro mesi.
Una permanenza che mi induce a considerare New York come una delle “mie città”, poiché è quella in cui ho vissuto più a lungo dopo Padova e Milano.
Sono tornato altre volte a New York successivamente, ma l’ultimo viaggio risale ormai al 1997 ed è legato a un ricordo tristissimo, perché durante una telefonata mia madre mi informò del dolore di cui si lamentava mio padre, segnale della malattia che lo avrebbe rapidamente sopraffatto.
Una serie di vicende personali e, soprattutto, la scelta, nel 2002, di dividere la mia vita con Doc hanno comportato la rinuncia a viaggi che implicassero lunghe assenze. Non ho quasi più lasciato l’Europa continentale e sono salito a bordo di un aereo solo per due brevi vacanze in quel luogo incantevole che è Chia, in Sardegna.
Questo non ha spento la mia propensione a viaggiare che, prima o poi, mi auguro potrà essere nuovamente soddisfatta e, più importante, la mia convinzione che il mondo dovrebbe essere più unito, più aperto, più condivisibile.
Non voglio annoiarvi, anche perché sono persuaso che voi tre la pensiate come me, quindi mi concedo un’affermazione che non suffragherò con prove: l’umanità si avvia a un periodo di pericoloso oscurantismo, nel quale si riaffermeranno visioni ristrette, volte a ripristinare un ordine mondiale che sembrava finalmente rifiutato per le drammatiche conseguenze prodotte nella prima metà del secolo scorso e per le paure e le diffidenze che anche successivamente avevano caratterizzato non solo i rapporti internazionali, ma anche le stesse relazioni tra cittadini di nazioni diverse.
Torno al mio primo soggiorno inglese. Ero ospite di una coppia piuttosto giovane, che aveva tre bambini tutti sotto i dieci anni. Nei primi giorni mi ero comportato come un pensionante, anche non troppo simpatico, riducendo al minimo i rapporti con loro. Una sera, dopo forse una settimana, il padrone di casa, quando manifestai l’intenzione di ritirarmi nella mia camera, mi dissuase piuttosto perentoriamente. Mi disse che mi trovavo lì per imparare l’inglese e per conoscere la nazione che mi ospitava e sottolineò che se non lo avessi fatto avrei deluso le aspettative dei miei genitori che avevano speso una cifra significativa per consentirmi di trascorrere un mese con loro. E cominciò a farmi domande, sulla mia famiglia e sull’Italia, ma in maniera che finiva per costringermi a riflettere sulle differenze tra i modi di vivere e la storia dei nostri paesi.
Anche questo è un ricordo vivo e prezioso di quel passato ormai lontano nel tempo, ma sempre presente in me, nelle mie convinzioni e nei miei atteggiamenti. La mia memoria ha conservato solo il cognome di quel signore inglese, Benson, non è, tuttavia, svanita la riconoscenza per la determinazione con cui mi ha fatto capire il valore dell’esperienza che stavo vivendo e la necessità di sfruttare fino in fondo l’opportunità offertami dalla mia condizione di privilegiato.
Negli anni seguenti, anche quelli più vicini a noi, ho sempre osservato con soddisfazione come crescesse il numero di ragazzi di varie parti del mondo che potevano sfruttare condizioni simili. E non ho mai smesso di pensare che il mondo sarebbe diventato migliore perché i suoi abitanti, soprattutto quelli più giovani, si conoscevano meglio, comunicavano più facilmente e più volentieri tra loro, si spostavano seguendo le proprie inclinazioni, i propri desideri e, perché no?, i propri sogni.
Oggi le mie convinzioni si sono fatte più fragili e non avete certo bisogno che vi spieghi le ragioni. Sono sotto gli occhi di tutti noi, ogni giorno, grazie alla stampa, quella vera, quella che non insegue l’approvazione della politica e il facile successo presso un pubblico sempre meno attento, incapace di informarsi e di riflettere, di discernere ciò che è autentico dai “fatti alternativi”.
E come un innamorato deluso, non riesco a non provare un particolare tormento nel vedere quanto rapidamente si stia allontanando dai propri valori la nazione alla quale, come tanti, ho guardato come esempio di democrazia e di apertura al mondo. Per questo non mi sento più un newyorchese.

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