martedì 24 maggio 2016

Una vittoria che non procura sollievo

Il voto per l’elezione del Presidente della Repubblica in Austria ha, comprensibilmente, attirato l’attenzione di tutti i mezzi d’informazione e provocato reazioni da parte di osservatori e politici, in Italia come altrove.
Di quel che si è detto da noi mi occuperò più tardi o, più facilmente, non mi occuperò affatto. Preferisco concentrarmi su opinioni maturate altrove e sicuramente più interessanti di quelle degli esponenti dei partiti italiani. Per iniziare ne ho scelte due.
La prima è quella di Dominique Reynié (https://fr.wikipedia.org/wiki/Dominique_Reyni%C3%A9), professore di scienze politiche in una delle più prestigiose università francesi, Science Po. Lo ha intervistato per il Corriere della Sera di oggi Stefano Montefiori. L’articolo non è disponibile nell’edizione digitale, ma lo si può leggere su Pressreader. Ecco il collegamento (che dovrebbe funzionare): http://pressreader.com/bookmark/Bxb6t2w2RH2cJ6IAYMjWvQmWsya2jzppWPkcBXIaz6E1/PageView.
Buona stampa. Buona l’intervista, ma interessanti, soprattutto, le osservazioni di Reynié, del quale condivido senz’altro l’opinione che la vittoria di Alexander Van der Bellen non deve assolutamente essere interpretata come un motivo di sollievo.
Troverete considerazioni abbastanza simili in un editoriale di Heather Grabbe (https://www.opensocietyfoundations.org/people/heather-grabbe), lei pure studiosa di materie politiche e sociali, pubblicato da The Financial Times di ieri che potete leggere qui (anche se con le solite riserve riguardo all’accesso): https://next.ft.com/content/208ee038-20cb-11e6-9d4d-c11776a5124d.
Buona stampa. Tra le molte riflessioni condivisibili di Grabbe, ce n’è una in particolare che mi sembra meriti una forte sottolineatura, quindi copio e incollo: “When mainstream politicians join the xenophobic chorus, they undermine anti-racist norms and encourage prejudice”. Se serve, ecco la traduzione: “Quando i politici di maggior rilievo si uniscono al coro xenofobo, essi indeboliscono le norme contro il razzismo e incoraggiano il pregiudizio”.
Mi sembra cruciale che la classe politica europea, così incline a travisare il significato di ciò accade nel continente, non commetta l’errore d’interpretare in modo sbagliato il significato delle elezioni austriache e d’ignorare il pesante richiamo che esse rivolgono proprio a coloro ai quali sono affidati i destini dell’Europa unita. Ne parla Adriana Cerretelli nel suo editoriale di oggi per Il Sole 24 Ore: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-05-24/l-europa-divisa-e-indizi-cogliere-072347.shtml?uuid=ADBkJDO.
Buona stampa. Anche se, come sa chi segue Cerretelli regolarmente come me, i suoi appelli alla ragione sono inascoltati da tempo e i governanti europei non riescono a mostrarsi all’altezza dei compiti e delle circostanze.
C’è un punto presente, sia pure con enfasi diversa, in tutti i tre articoli che vi ho suggerito, ovvero il progressivo accentuarsi, ovunque in Europa e non solo, delle differenze tra l’elettorato cittadino e quello delle aree rurali e, più ancora, quello tra gli elettori che hanno vissuto all’estero o che hanno avuto comunque frequenti contatti con realtà diverse da quelle della nazione di origine e quelli che tali esperienze non hanno avuto.
Solo vent’anni fa molte analisi sociologiche ponevano l’accento sulla riduzione delle differenze tra chi risiedeva nelle città e chi viveva in piccoli centri o in aree agricole. Un’uniformità prodotta soprattutto dalla televisione e dalla comunicazione delle aziende interessate ad affermare modelli di consumo simili, tali da consentire di diffondere l’acquisto dei medesimi prodotti ovunque, attraverso reti commerciali anch’esse progettate per soddisfare esigenze sostanzialmente indifferenziate.
Molte cose sono cambiate rispetto ad allora. Nuovi mezzi di comunicazione sono apparsi e si sono diffusi con modalità diverse, ricreando distinzioni abbastanza marcate all’interno della società. E, tra i nuovi mezzi di comunicazione e tra i format prevalenti in quelli tradizionali, prevalgono quelli che non aiutano la riflessione e la considerazione pacata degli argomenti. La globalizzazione prima e la crisi economica poi hanno accentuato la distanza tra chi gode dei vantaggi di una ricchezza accumulata in precedenza o di capacità professionali ben valutate sul mercato del lavoro e chi non può contare su una o su entrambe queste condizioni, ossia un ampio segmento dei cittadini di larga parte delle nazioni più sviluppate e non solo. 
E’ in questi segmenti della società che raccolgono consenso i movimenti che propongono di ricreare le barriere tra le nazioni, di rinchiudersi, di rinnegare quella spinta all’integrazione e alla collaborazione grazie alle quali buona parte della popolazione del nostro pianeta ha potuto migliorare le proprie condizioni di vita.  
Purtroppo quasi ovunque si è verificato un declino della classe politica, nella quale sono venute a mancare la volontà e la capacità di svolgere il ruolo di guida che le sarebbe proprio. Si persegue il consenso a ogni costo e si rinuncia a difendere e rinnovare principi e visioni che hanno consentito di realizzare le condizioni grazie alle quali abbiamo conosciuto, almeno in occidente, il più lungo periodo di pace e di benessere di tutti i tempi. E’ di questo che si dovrebbe parlare, non di barriere e di differenze.
Chiudo con la frase di un grande giornalista e intellettuale polacco, condivisa oggi su Facebook da un mio amico (grazie Gaetano). Sono parole di Ryszard Kapuściński (http://www.treccani.it/enciclopedia/ryszard-kapuscinski/): “L’emigrazione è l'unione tra la speranza e il movimento. Si tratta di un processo irreversibile, connaturato all'animo umano”.
Credo che in Italia più che altrove si dovrebbe comprendere quanta verità vi sia in queste parole.
Buona notte e buona fortuna.

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