giovedì 16 luglio 2015

A cosa aspira uno statista


Il Presidente degli Stati Uniti è, come si usa dire, l’uomo più potente del mondo. Questa affermazione, senz’altro fondata se riferita alle dimensioni della forza che, come capo militare della nazione, egli è in grado di impiegare, appare meno convincente se valutata in relazione alla capacità di imporre la propria visione politica attraverso provvedimenti di legge. Anche il Presidente degli Stati Uniti, infatti, si misura con Senato e Camera dei Rappresentanti, le cui maggioranze non sono necessariamente omogenee né espressione del partito di estrazione del Presidente, il cui lavoro, quindi, può risultare molto difficile e favorire in lui la propensione ad accettare compromessi e a rinunciare ai propri obiettivi, non di rado quelli di maggior rilievo.

Barak Obama, che resterà in carica ancora per circa diciotto mesi, sembra aver deciso di ignorare le divergenze di opinione con il Congresso e portare a compimento alcuni dei suoi principali disegni, prevalentemente di politica estera. Se n’è occupato ieri Massimo Teodori sul Corriere della Sera: http://www.corriere.it/cultura/15_luglio_15/obama-cuba-all-iran-successi-fine-mandato-3659bcc4-2aba-11e5-8eac-aade804e2fe2.shtml.
Buona stampa. Difficile non pensare al respiro che può avere la politica quando non sente l’assillo di una campagna elettorale imminente. E quando, come nel caso di un Presidente americano che sta per concludere il secondo mandato, può anche non preoccuparsi di chi verrà dopo e di quale “eredità” i successori vorrebbero ricevere e guardare ad altro.
Non tutti gli uomini che hanno preceduto Obama si sono comportati allo stesso modo, alcuni non si sono neppure fatti sfiorare dal desiderio di imprimere, nei mesi conclusivi della propria presidenza, significative svolte politiche “alte”, non dettate da opportunismo e convenienza.
Sempre ieri, sul Corriere della Sera, nel ripercorrere la lunga storia dell’ostilità tra Usa e Iran, Ennio Caretto ricordava come Jimmy Carter abbia rinunciato a impiegare l’arma nucleare per risolvere in maniera definitiva il conflitto con il regime instaurato da Khomeini ed esasperato dal sequestro dei dipendenti dell’ambasciata americana a Teheran. Una rinuncia che, unita al fallimento del tentativo di liberare gli ostaggi (l’operazione “Artigli d’Aquila”), gli costò la rielezione nel 1980. Con quella scelta, Carter dimostrò che si può anche rinunciare a un obiettivo prestigioso come un secondo mandato presidenziale per non violare le proprie convinzioni e per mantenere una linea politica “alta”.
Tutto questo per dire che, pur con i loro numerosi difetti, gli Stati Uniti sono una nazione nella quale ancora si può vedere un Presidente che, per non trasgredire ai suoi principi e per affermare la sua visione, assume decisioni che, oltre a essere in contrasto con le aspirazioni irrazionali della popolazione, impongono duri confronti parlamentari e danneggiano la sua popolarità e il suo gradimento.
Difficile, molto difficile che situazioni analoghe si presentino in altri Paesi. Guardiamo, però, soltanto al caso che ci riguarda più da vicino, ossia all’Italia.
Negli ultimi vent’anni si è accentuato un difetto già presente nella nostra vita politica, ossia la mancanza di ricambio tra le generazioni. Non serve certo che io mi metta a elencare nomi di persone che da tempo immemorabile si ostinano a restare in politica, incapaci di farsi da parte e di lasciare ad altri il proprio posto. Alcuni di costoro, tra l’altro, insistono pur avendo dato già definitive e indiscutibili prove d’incapacità e, non di rado, di mancanze anche peggiori.
Quest’ottusa ostinazione, a me pare, dimostra un’ambizione cieca, del tutto estranea alla ricerca del bene collettivo. Non si cerca il potere per realizzare provvedimenti destinati a risolvere i problemi e a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Si cerca il potere per gratificare il proprio io, per garantirsi privilegi, per specchiarsi negli adulatori e nei clientes. E non parliamo di motivazioni peggiori, che spingono a violare la legalità (e i casi, purtroppo, non mancano).
Il male è così profondo da aver infettato persino alcuni dei giovani apparsi sulla scena recentemente. E il mio pensiero va al Presidente del Consiglio, nel quale alla smodata ambizione si accompagna l’indifferenza all’efficacia reale del suo agire, alle prospettive storiche della sua azione di governo.
In quasi tutti i commenti che ho letto dopo l’accordo tra Unione Europea e Grecia ho trovato riferimenti più o meno espliciti al fatto che l’Italia è avviata sul medesimo cammino, perché i mali non curati dai governi di Atene sono in gran parte gli stessi che non sono stati curati dai precedenti governi di Roma e non sono curati da quello in carica.
Per tutti, valga questo articolo di Carlo Bastasin da Il Sole 24 Ore di martedì: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-07-14/berlino-e-due-velocita-071044.shtml?uuid=ACtjwER&fromSearch.
Buona stampa. Riprendo un pezzo che dice tutto: “In questo contesto la posizione italiana è incredibilmente delicata e dovrebbe essere elaborata con visione strategica. Roma deve essere in grado di valorizzare l'aspirazione di Berlino a un'integrazione più stretta da cui l'Italia beneficerebbe più di chiunque altro. Ma deve anche allontanarsi dal rischio di essere affiancata ad Atene come paese troppo rischioso per non essere esposto al rischio di uscita. In fondo l'Italia avrebbe molto da interrogarsi se dovesse applicare le riforme incluse nel memorandum di Atene ai propri problemi endemici e mai debellati di inefficienza, criminalità e corruzione. Una riflessione sulla parte indispensabile delle riforme è ora più giustificata vista la debacle del negazionismo populista.
Da mesi sostengo che Renzi non sta facendo quello di cui l’Italia ha bisogno. Il modo in cui (forse) si è risolta la vicenda greca rafforza la mia convinzione e fa apparire più drammatica l’inconcludenza di un governo proiettato sull’apparenza e non sulla sostanza, che combatte battaglie che nulla hanno a che vedere con i veri problemi italiani, mentre evita accuratamente di affrontare i tanti nodi di un Stato che tratta i cittadini come sudditi e ostacola l’attività di imprenditori e professionisti, uno Stato governato da burocrati attenti soltanto al proprio arricchimento personale e alla tutela del sistema che hanno creato, grazie anche all’incuria e all’inettitudine dei politici (ne ho parlato tante volte indicando una ricca bibliografia, perciò oggi posso non citare nulla).
Come si riallaccia tutto questo all’esordio di questo post? Credo sia chiaro: l’intento era mettere in evidenza la distanza che separa l’agire di Obama da quello di Renzi. Il quale, purtroppo, non è che l’ultimo anello di una lunga catena di capi di governo che si sono comportati come lui. E, mi sembra giusto sottolinearlo, tra quelli che più hanno deluso va indicato Mario Monti. Anche lui non ha saputo guardare al suo ruolo con la statura del vero statista, che è quello capace di imporre scelte impopolari e difficili, ma necessarie, persuaso che l’approvazione della Storia sia più preziosa degli applausi degli spettatori di un talk-show. Mi piacerebbe che Renzi si preoccupasse meno di un'inconcludente riconferma e un po' di più di prendere provvedimenti che servono realmente all'Italia.
E a questo punto possiamo soltanto cercare sollievo nella musica, continuando la nostra battaglia. Oggi, dopo molte parole, un paio di ascolti. Il primo è un brano di jazz, una composizione di Thelonious Monk nell'esecuzione originale del 1958 del quartetto dell'autore: Misterioso.


Con il secondo pezzo andiamo alla musica dell'ultima parte del secolo scorso, con il gruppo degli Eurythmics. Il brano, in versione dal vivo, è When Tomorrow Comes.





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