giovedì 8 febbraio 2018

Verso il 4 marzo

Se ho fatto i conti correttamente, mancano 23 giorni al voto. Alla mia età si è poco inclini a illudersi, quindi sono portato a escludere che, nelle tre settimane che ci separano dalle elezioni, il tono della campagna elettorale si sollevi dal livello infimo al quale si è sviluppata finora.

Dai sedicenti leader e aspiranti Presidenti del Consiglio in giù, i politici le cui voci sentiamo in questa campagna elettorale sono di qualità tale da garantire che assisteremo alla più deprimente e più squallida competizione, in larga parte basata su proposte farneticanti e condotta in modi del tutto estranei alla civile convivenza.
Paradossalmente, tutto questo sarebbe anche accettabile se, dietro uno scontro volgare e inconcludente, si potesse intuire che i concorrenti, una volta superato il 4 marzo, vincitori e vinti non importa, saprebbero mettersi al lavoro seriamente per affrontare i problemi italiani, che sono lì da molti anni, con buona pace dei pretesi successi vantati dai politici che hanno governato negli ultimi due decenni (moltissimi dei quali sono gli stessi).
Detto in altro modo e guardando al recente esempio tedesco, si potrebbe anche chiudere un occhio e tollerare questa campagna elettorale vergognosa se si potesse immaginare che, a schede contate e in tempi anche non brevi, le forze politiche riuscissero a dare al paese una soluzione di governo come quella che CDU-CSU e SPD hanno saputo lentamente e faticosamente elaborare. 
Non mi aspetto certo che questo accada. E non per il livello delle offese che si scambiano gli avversari e, talvolta, anche gli alleati o probabili tali. Le campagne elettorali sono ormai molto simili ovunque. Le ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti mi sembrano un esempio drammaticamente efficace di come i confronti politici si svolgano quasi ovunque in maniera volgare, offensiva e inconcludente. Anche in Germania il confronto tra i partiti avversari, e ora alleati, ha avuto luogo senza che venissero risparmiati attacchi personali e grossolanità. Dietro, però, esisteva la sostanza di proposte politiche autentiche, coerenti con la realtà tedesca e intese a risolvere i problemi: proposte ovviamente differenti tra loro, formulate in base alla cultura e alla scala di valori dei singoli partiti, ma “vere”, ossia fatte di obiettivi e di strumenti per perseguirli, gli uni e gli altri abbastanza nitidamente identificati da poter diventare, come è accaduto, argomenti di discussione nel lungo e duro negoziato che ha portato alla nascita del quarto governo di Angela Merkel, sostenuto dalla nuova Grande Coalizione.
In Italia non esistono condizioni paragonabili a quelle tedesche. I programmi sono sempre vaghi, indicano obiettivi generici e ben pochi elementi concreti per valutarne la credibilità. In realtà, da noi i programmi elettorali servono a poco o nulla e, infatti, spesso si somigliano perché mirano non già a prospettare soluzioni, ma a gratificare la pancia degli elettori, di tutti gli elettori, non solo dei propri. Conta vincere. Governare è, per certi aspetti, secondario. Conta raggiungere (meglio: raggiungere e mantenere) una carica e i vantaggi che da essa derivano, non la possibilità di migliorare l’Italia. Anche perché domani ci saranno altre elezioni da vincere e, quindi, il potere viene prevalentemente inteso come strumento per comprare nuovo favore elettorale.
Questa situazione non è nuova, ma io credo si sia progressivamente aggravata negli ultimi due decenni, da quando è entrato in crisi il modello politico emerso dopo la Seconda Guerra Mondiale. La fine della cosiddetta Prima Repubblica è stata, a mio parere, soprattutto la fine di una classe dirigente, decimata dalle inchieste. Non che fosse una classe dirigente politica perfetta, tutt’altro, ma quella che l’ha sostituita si è rivelata di gran lunga peggiore. E la colpa, a conferma dell’adagio secondo il quale il pesce puzza dalla testa, va attribuita a chi ha guidato i partiti negli ultimi vent'anni e più. Non esiste in Italia un partito che non sia padronale, nel quale non vi sia un leader che lo considera un proprio feudo dove dare spazio solo ai sostenitori più fedeli, indipendentemente dalle capacità. E la politica è diventata un mestiere, non nel senso di Max Weber, ma in quello dei tanti che perseguono una retribuzione (dai consigli comunali al Parlamento).
Sono svaniti i sistemi di selezione e di formazione che, in passato, filtravano chi aspirava a ottenere cariche elettive. Erano senz’altro meccanismi imperfetti e potevano a volte rivelarsi inadeguati, tuttavia erano migliori dei criteri attuali.
Questo tema è in parte assente dall’editoriale di Angelo Panebianco pubblicato ieri dal Corriere della Sera: http://www.corriere.it/opinioni/18_febbraio_07/politica-senza-potere-burocrazie-amministrazione-magistrature-3b6432d0-0b77-11e8-8265-d7c1bfb87dc9.shtml.
Buona stampa. Panebianco sviluppa le proprie considerazioni in maniera largamente condivisibile, ma trascura di sottolineare che, per affermare il proprio predominio sul potere politico e impedire ogni reale azione riformatrice, la pubblica amministrazione e le magistrature hanno potuto e possono ancora contare, tra l’altro, sull’impreparazione dei politici, che è la vera causa della loro debolezza. Un ministro o un sottosegretario scarsamente competente finisce inevitabilmente per affidarsi a burocrati e magistrati, i quali, di fatto, sono diventati controllori di se stessi. Quanto ciò mi appaia tollerabile, voi tre lo capite bene anche senza che lo scriva.
Buonanotte e buona fortuna.

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