Oggi, calda giornata di tarda primavera, penso abbiate tempo
per una lettura più lunga del solito, così vi propongo, per vostra comodità, un
intero articolo (alla fine vi darò il link) di cui vi anticipo soltanto
l’autore: Claudio Magris, sicuramente una delle menti migliori del nostro
Paese, uomo di straordinaria cultura e di raro equilibrio. Leggetelo, ne vale
la pena. Una precisazione: le parole del titolo sono tratte dal pezzo che segue.
Un conoscente della
mia famiglia, collega d'ufficio di mio padre, aveva la mania dei raffreddori;
stava attento ai giri d'aria e prendeva tutte le precauzioni contro
infreddature e bronchiti, convinto che le malattie potessero colpirlo solo da
quella parte. Morì di un cancro all'intestino ovvero, come si diceva allora, di
un «brutto male». Quel signore faceva benissimo a non trascurare le eventuali
minacce alla faringe o ai bronchi, spesso fastidiose e talora perniciose, ma
sbagliava a sottovalutare pericoli più gravi. Anche il corpo sociale ha le sue
malattie, scatenate o in agguato. La sua salute dipende da come fronteggia,
previene, combatte i morbi che lo insidiano; dalla sua capacità di
reprimere—tramite le autorità preposte a tale funzione — i reati nella misura
stabilita dalla legge, senza indulgenze buoniste o pseudo- umanitarie e senza
isterie demagogiche né pregiudizi verso alcuna categoria di persone. In uno
Stato liberale e democratico non si sospettano a priori e tantomeno si vessano
né i kulaki ossia i contadini proprietari, come un tempo nell'Unione Sovietica,
né gli ebrei, i neri, gli immigrati, come tante volte in tanti Stati del mondo.
Oggi sono gli zingari ad occupare i titoli cubitali dei giornali, con i reati
compiuti da alcuni di loro e altri loro attribuiti, e con i violenti soprusi
patiti da alcuni di essi. In entrambi i casi, lo Stato—e solo lo Stato, che ha
il monopolio dell'uso della forza — ha da individuare e perseguire gli autori
di atti delittuosi, il delinquente che ruba e molesta come il delinquente che
getta bombe Molotov, contro la polizia negli anni Settanta o contro i rom oggi.
Il nostro codice o meglio la nostra civiltà consentono di punire soltanto
individui — rei di delitti accertati, la cui responsabilità è sempre personale
— e mai gruppi o comunità, poco importa se etniche, sociali, politiche o
religiose. Attentare a questo principio — prendersela con gli zingari, gli
ebrei o i padani anziché con un concreto colpevole colto con le mani nel sacco,
sia egli nato a Timbuctù o ad Abbiategrasso — mina alla radice l'universalità
umana e in particolare la nostra civiltà, l'Occidente. Chi nega questo
fondamento dell'umanità e del diritto è il vero barbaro e non ci interessa
donde arrivi, dall'orto dietro casa nostra o da lontani deserti. Zingari,
norvegesi, triestini o senegalesi sorpresi a delinquere vanno puniti senza
riguardo alla loro diversità o povertà. Tifosi bestiali che in nome di una
squadra di calcio commettono violenze contro persone o cose — provocando spesso
rovinosi danni a onesti esercenti, di cui sfasciano i negozi in una ebbrezza di
subumana e delittuosa ebetudine — vanno puniti con tutta la durezza consentita
dalla legge e costretti a pagare sino all'ultimo spicciolo i danni arrecati,
senza riguardo a chissà quali disagi esistenziali sottostanti alle loro
brutalità.
Improvvisati e
autonominatisi giustizieri che si dedicano a spedizioni criminose vanno puniti
con esemplare severità, perché rappresentano un virus socialmente e moralmente
ancor più nocivo dei ladruncoli veri o presunti che si vogliono castigare: il
Ku-Klux-Klan, nato si dice alla fine della guerra di Secessione per proteggere
i bianchi del Sud americano dalle violenze cui si abbandonavano alcune bande di
schiavi appena liberati, è divenuto ben presto la più orrida criminalità. Uno
stupratore romeno va punito per il suo ributtante reato, ma non può gettare il
discredito indiscriminato sui suoi connazionali, così come i recenti assassini
di Verona non possono autorizzare squadracce sguinzagliate alla caccia dei
veronesi. L'attuale ministro dell'Interno, che promette pugno duro, sa bene che
i pugni distribuiti con disinvoltura talvolta arrivano in testa pure ai
galantuomini, perché anni fa, quando non era più e non era ancora di nuovo
ministro dell'Interno, alcuni sbrigativi poliziotti gliene hanno dati pure a
lui. La cosiddetta piccola criminalità non è un raffreddore, bensì una piaga sociale;
gli scippatori di anziani che hanno appena ritirato la pensione mettono intere
famiglie in difficoltà di arrivare alla fine del mese. La sicurezza è un bene
primario; la sua necessaria e ferma tutela non è certo espressione di biechi
sentimenti filistei o di astiosi pregiudizi nei confronti di immigrati ed
emarginati, come troppe volte si è detto con sufficienza. Ogni problema umano e
sociale non risolto comporta un tasso di devianza e di illegalità, già solo per
il fatto che le leggi esistenti non riescono a risolverlo. È la globalizzazione
che produce spostamenti crescenti di masse di diseredati nei Paesi più ricchi,
con tutte le conseguenze che ne derivano. La globalizzazione nasce dal crollo
del comunismo e dalle nuove forme assunte dal capitalismo; non sembra
augurabile né possibile restaurare il primo e bloccare lo sviluppo del secondo
e d'altronde non si può avere botte piena e moglie ubriaca, come dice il
proverbio. L'universalità e le difficoltà di questo fenomeno planetario ci
aiutano, ci costringono a toccar con mano l'interdipendenza di tutti gli
uomini, l'essenziale unità del genere umano, diversificato ma organicamente
unitario come un grande albero con le sue radici, rami e foglie; ci fa sentire
fisicamente che ognuno di noi, come dice la Bibbia degli ebrei, è stato
straniero in terra d'Egitto e può ancora diventarlo, nel domani sempre più
incerto e sempre più globale, e dunque che gli stranieri sono i compagni del
nostro destino. Giustamente si ricorda l'emigrazione italiana, la dura e ammirevole
odissea dei nostri emigranti, stranieri spesso osteggiati nei Paesi allora più
ricchi ed ostili. Ma appunto perciò occorre sapere quanto sia difficile, per
tutti, essere stranieri. La retorica della diversità elude sentimentalmente il
problema.
Tutti — persone,
culture — siamo diversi e proprio perciò è vacuo ripetere come pappagalli
questa parola. Inoltre la diversità, la particolarità non è ancora di per sé un
valore; è un dato, un'identità (nazionale, politica, culturale, religiosa,
sessuale) sulla cui base si possono costruire dei valori, che tuttavia sempre
la trascendono, perché essere italiani, africani, buddhisti, omosessuali non è
un merito né un demerito, non è cosa di cui avere orgoglio né vergogna; è un
dato di fatto che va rispettato e tutelato contro chi non lo rispetta.
Certamente ogni diversità arricchisce, perché si cresce uscendo da se stessi e
incontrando gli altri; ogni endogamia è asfittica e regressiva, non solo quella
sessuale. Ma la diversità diventa una retorica truffaldina quando viene
invocata per eludere la consapevolezza dei conflitti reali che talora possono
sorgere dal contatto fra culture diverse — ad esempio tra una fondata
sull'uguaglianza dei diritti tra uomo e donna e una che la nega. Pure tali
possibili conflitti vanno affrontati con equilibrio responsabile — e non già
esacerbati col pathos spettacolare dello scontro di civiltà, che seduce con la
sua visione della Storia al technicolor — ma non vanno elusi né sottovalutati.
La teppa scatenata contro i campi nomadi e il clamore mediatico che le fa da
grancassa rimuovono la consapevolezza di problemi ben più ardui dell'emergenza
rom. Le dimensioni numeriche dell'immigrazione potrebbero in futuro aumentare
sino a renderla materialmente impossibile, perché, per fare un esempio oggi
assurdo, non è fisicamente possibile accogliere milioni di poveri. Si
potrebbero creare, con la necessità e l'impossibilità di accoglienza,
situazioni oggettivamente tragiche, in cui — come appunto nella tragedia — è
comunque impossibile agire senza colpa. Anche per questo il problema non può
essere affrontato con criteri diversi nei singoli Stati, ma può essere gestito
solo globalmente dall'Europa, perché non è un problema italiano o spagnolo
bensì europeo, se non occidentale in generale. È difficile dire se il nuovo
capitalismo, che ha innescato questo meccanismo con la globalizzazione, saprà
governarlo o ne sarà travolto come un apprendista stregone. È un problema ben
presente nel libro di Giulio Tremonti Paura e speranza.
I rom e altri immigrati
sembrano oggi la minaccia maggiore alla nostra sicurezza. «Cieca bugia,
distrazione di massa dalla realtà complessiva », ha scritto Mariapia Bonanate
sul Nostro Tempo. Credo che i commercianti e gli industriali taglieggiati dalla
camorra o dalla mafia scambierebbero volentieri il danno, l'intimidazione — non
di rado la morte — che sono costretti a subire con i fastidi di chi abita non
lontano da un campo di nomadi. Come ha scritto Riccardo Chiaberge su Il Sole 24
Ore, non si sono viste squadre di cittadini indignati scagliarsi contro
quartieri della camorra e non ho sentito parlare di ronde pronte a proteggere
gli esercenti dai malavitosi che vengono a riscuotere il pizzo. Certo, è più
rischioso affrontare i guappi che i vu cumprà e qualcuno ci rimetterebbe la
pelle, ma ciò non dovrebbe scoraggiare chi vanta i propri attributi virili e
trecentomila fucili. La mafia e oggi ancor più la camorra — grazie al possente
libro di Roberto Saviano — sono certo intensamente presenti all'opinione
pubblica: libri, film, articoli, servizi televisivi, dibattiti. Ma non scuotono
veramente l'opinione pubblica; non destano — diversamente dagli extracomunitari
— alcun furore, alcuna paura nei cittadini. Sono quasi letteratura, una
tragedia esorcizzata dalla sua rappresentazione, dopo la quale si va
tranquillamente a casa — tranne chi è minacciato o colpito dalla morte. Come
quel mio conoscente, siamo più vigili dinanzi a una tosse fastidiosa che ad un
cancro. Il cancro si avverte meno, forse perché ha già occupato gran parte del
corpo, si è infiltrato negli organi e nei sensi che sta distruggendo, sicché,
almeno sino ad un certo momento del suo lavorìo, è difficile percepirlo, così
come non si vede il proprio sguardo. Un impero del crimine i cui profitti sono
quelli di una potenza economica mondiale e le cui vittime sono numerose come
quelle di una guerra è un cancro infiltrante, che si immedesima con una parte
sempre più grande della realtà. È giusto, è doveroso curare severamente scippi,
furti, aggressioni, molestie, ogni illegalità anche piccola, ma sapendo quale
sia la nostra vera malattia mortale.
A me sembrano parole di una saggezza straordinaria e di non
meno esemplare limpidezza, come sempre quelle di Magris. Sono, inoltre,
espressione di una straordinaria lungimiranza e capacità di interpretare le
vicende italiane e mondiali, perché si tratta di parole scritte oltre sette
anni fa. L’articolo, infatti, è stato pubblicato sul Corriere della Sera il 26
Maggio 2008 con il titolo La nostra vera
malattia (http://www.corriere.it/editoriali/08_maggio_26/editoriale_magris_la_nostra_vera_malattia_7491aaaa-2ae1-11dd-9793-00144f02aabc.shtml).
Buona stampa. Non servirebbe neppure scriverlo…
Trovo davvero inquietante che, salvo i riferimenti
bibliografici e quello al ministro in carica, non vi sia un passaggio dello scritto di Magris non adeguato al
nostro drammatico presente. E credo che voi tre comprendiate perfettamente le
ragioni di questa mia affermazione e percepiate lo sconforto che suscita in me
la consapevolezza del trascorrere inutile del tempo, con i problemi irrisolti
che diventano metastasi devastanti.
Continuiamo con un altro articolo tutt’altro che rasserenante,
ma tant’è, in Italia, checché se ne dica, io fatico a vedere ragioni di
conforto. Si tratta dell’editoriale di ieri de Il Sole 24 Ore, firmato da Guido
Gentili, per anni direttore del quotidiano. E’ un pezzo che si inserisce nel
solco di quello di Lina Palmerini segnalato giovedì, perché evidenzia altri
sintomi del progressivo dissolversi delle istituzioni italiane, consumate dal
proprio agire assurdo e incoerente.
Ecco il collegamento all’articolo di Gentili:
Buona stampa.
Finiamo con la musica, come di consueto. Lo facciamo con un
brano di jazz che, lo anticipo, forse solo uno di voi tre riuscirà ad ascoltare fino in fondo. E, tuttavia,
non posso esimermi dal proporvi questo pezzo di Ornette Coleman, una delle
figure fondamentali della musica afroamericana per sessant’anni. Ornette
è morto giovedì scorso. Vi propongo due articoli che parlano di lui: il primo
di Claudio Sessa sul Corriere (http://archiviostorico.corriere.it/2015/giugno/12/Addio_Ornette_Coleman_suo_sax_co_0_20150612_6a79c408-10c6-11e5-9418-feea22ac9f01.shtml),
il secondo di Franco Fayenz su Il Giornale (http://www.ilgiornale.it/news/cultura/coleman-libert-totale-feroce-assolo-sax-1139734.html).
Buona stampa. Il brano che ascoltiamo è Lonely Woman eseguito dal vivo a Vienna nel 2008.
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