Ieri, a Cadoneghe, un comune alle porte di Padova, si è
avuto l’ennesimo suicidio di un imprenditore. Il caso ha suscitato maggior
clamore rispetto a quelli precedenti per la notorietà e il rilievo della
persona. Egidio Maschio era, infatti, un grande imprenditore, il fondatore e l’artefice del successo di
un’azienda leader mondiale nel proprio settore, quello delle macchine per le
lavorazioni agricole, impresa che porta il suo nome: Maschio Gaspardo.
Sul Corriere del Veneto, inserto regionale del Corriere della Sera, c’è un editoriale firmato da Romolo Bugaro, scrittore padovano che ha dedicato ampio spazio nei suoi lavori alla realtà veneta, inclusa quella di una classe imprenditoriale che, dagli anni 50 del secolo scorso, ha realizzato un formidabile processo d’industrializzazione.
Ecco il link all’articolo di Bugaro: http://corrieredelveneto.corriere.it/padova/notizie/cronaca/2015/25-giugno-2015/solitudine-dell-imprenditore-2301567911005.shtml.
Buona stampa. Direi, anzi, ottima. Bugaro fa con garbo e
acume il suo lavoro di scrittore e ci fa intuire cosa ci sia dietro una vicenda
umana sulla quale non intendo certo aggiungere nulla.
A me preme, invece, riflettere sugli aspetti economici che,
a quanto è dato capire dalle notizie riportate oggi dai giornali, emergono
dalla vicenda.
Il Gruppo Maschio Gaspardo, dalla fondazione nella stalla di
casa era cresciuto fino a diventare, come dicevo, azienda leader mondiale nel
proprio settore, con fabbriche e filiali commerciali sparse nel mondo. Una
crescita continuata anche negli ultimi anni, nonostante la crisi e, a quanto
pare, finanziata prevalentemente dalle banche che, di recente, avrebbero rivisto
le proprie politiche di credito, irrigidendole, e imposto la nomina di alcuni
dirigenti estranei alla famiglia, per esercitare un certo grado di controllo
sull’impresa e tutelare la propria esposizione.
Ripeto, questo è quel che ho letto oggi sulla stampa. Sono
portato a pensare che risponda al vero, ma non è un punto fondamentale nel mio
ragionamento, che è un altro. Non intendo, dunque, attribuire alcuna
responsabilità alle aziende di credito.
La mia tesi è che questa vicenda sembra confermare due
aspetti che si alimentano l’un l’altro: la mancanza di mercati e strumenti finanziari
evoluti, capaci di far affluire a ogni tipologia di azienda la quantità e la
qualità di capitale necessario (rendendo meno essenziale il ricorso al credito
bancario), e la scarsa o nulla propensione degli imprenditori italiani, in
particolare quelli del Nordest, a rinunciare al controllo dell’azienda, tanto
che arrivano a impedirne la crescita o a farla crescere in maniera squilibrata
pur di non modificare la compagine sociale.
Ricordo bene lo spazio che quest’argomento aveva negli esami
universitari che ho superato oltre trent’anni fa. Il tema era molto presente:
aveva rilievo per l’economia aziendale, per l’economia bancaria, per la finanza
aziendale, insomma, era un soggetto già allora molto studiato. E il messaggio
forte era, appunto, che mancavano da un lato gli strumenti e dall’altro la
volontà di usarli per far crescere il capitale delle aziende così che potessero
svilupparsi in modo equilibrato, conquistando con maggior facilità e minori
rischi nuovi mercati e raggiungendo dimensioni maggiori, adeguate a
confrontarsi con la concorrenza internazionale.
Da allora le cose sono cambiate, non si può negarlo. Nuovi
strumenti sono a disposizione delle aziende per finanziarsi senza ricorrere al
credito bancario (o ricorrendovi in misura adeguata): dai segmenti per le medie
imprese di Borsa Italiana all’intervento dei fondi di private equity o di venture
capital, giusto per citare qualche esempio. Eppure questo non è bastato perché
la mentalità degli imprenditori non è cambiata e, probabilmente, non è cambiata
neppure quella dei banchieri. Gli uni e gli altri hanno continuato a guardare
al mondo attraverso lenti vecchie, ormai inadeguate. I primi non si sono
liberati dal desiderio di mantenere il controllo totale sulla propria azienda,
incuranti degli effetti negativi che questo poteva comportare sulla capacità di
crescita o sulla struttura del capitale. I secondi hanno continuato a
privilegiare criteri di valutazione dei clienti basati essenzialmente sulla
capienza del patrimonio personale e non sulle prospettive aziendali. Sia
chiaro, l’argomento richiederebbe una trattazione assai più estesa e, quindi, devo
necessariamente semplificare, ma sono persuaso di aver toccato in modo giusto i
punti giusti (voi tre lo sapete che sono modesto, vero?).
Prima di passare alla musica, un’ultima osservazione sul
tema del giorno e anche il recupero di un articolo che non vi ho segnalato ieri
per ragioni di spazio.
Tra le condizioni che possono spingere un imprenditore a
togliersi la vita, soprattutto in una fase economica di crisi prolungata come
l’attuale, non possiamo trascurare il peso ossessivo degli adempimenti richiesti
dallo Stato, non solo quelli fiscali. Ne accenna Bugaro nel suo pezzo, ma corre
l’obbligo di sottolinearlo.
L’articolo che andiamo a recuperare è l’editoriale di ieri
del Corriere, un fondo di Ernesto Galli della Loggia che affronta con grande
lucidità il tema dell’immigrazione e dell’integrazione:
Buona stampa. Ogni mio commento sarebbe superfluo.
Oggi vi propongo nuovamente Jordi Savall, che è senz'altro un esecutore che mi piace molto. Lo ascoltiamo in alcune melodie tradizionali irlandesi, accanto a lui l'arpista Andrew Lawrence-King (https://it.wikipedia.org/wiki/Andrew_Lawrence-King).
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