Voi tre sapete bene che non mi occupo di cronaca nera. L’argomento
è privo di qualsiasi attrattiva e, se mai suscitasse in me un blando interesse,
il modo con cui lo trattano i media italiani (e non solo italiani) lo farebbe svanire.
E non penso soltanto a Bruno Vespa, il maestro di tutti quelli che spiano dai
buchi della serratura e rovistano nei bidoni delle immondizie.
Quanto precede, ovviamente, ha a che fare con il tema del giorno, che, però, è solo marginalmente collegato a un fatto di cronaca nera, precisamente alla morte di uno studente padovano durante la gita scolastica a Milano.
Della vicenda so pochissimo: quello che si può apprendere
dai titoli dei quotidiani, sia quelli che leggo sia quelli che qualche amico ha
condiviso su Facebook.
Quello che mi ha colpito, come credo sia accaduto ad altri,
è l’atteggiamento della preside del liceo in cui studiava lo sfortunato
ragazzo.
Due giorni fa, Il Mattino di Padova ha ripreso le
dichiarazioni della preside rilasciate al TG3:
Cronaca. Il mio commento, su tutta la vicenda, non sulle parole della preside, lo affido alle parole di un articolo di Claudio Magris pubblicato dal Corriere della Sera il 19 Novembre
2006 (http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2006/11_Novembre/19/magris.shtml). Lo riprendo e lo pubblico integralmente così non dovete perdere tempo. La
circostanza che l’ha ispirato, ovviamente, è meno grave di quella di cui stiamo
parlando e solo in parte assimilabile ad essa, tuttavia credo che le considerazioni di Magris costituiscano un formidabile stimolo alla riflessione.
Quelle violenze crudeli e stupide
Quattro studenti
diciassettenni di un Istituto tecnico torinese si sono divertiti a percuotere,
umiliare e tormentare un loro compagno — affetto da una disabilità che gli
impediva di difendersi e di rispondere come si deve a uno schiaffo con almeno
due—dinanzi agli altri allievi della classe, pare compiaciuti dello spettacolo
e dunque non meno colpevoli e beoti di loro. Hanno anche registrato la loro
impresa in un video. A ciascuno la sua immortalità. Quartetto e spettatori
erano presumibilmente ignari di ripetere un banale, stupido e coatto copione di
crudele viltà recitato migliaia di volte da quei pessimi attori che siamo noi
esseri umani, quasi tutti tentati, una volta o l'altra, di recitare simili
parti odiose e imbecilli, di infierire su qualche vittima indifesa o quanto
meno di seguire e imitare, eccitati come una muta di cani, qualcuno che si
improvvisa capobranco. L'autorità scolastica ha deliberato le sanzioni punitive
e la Procura dei minori sta valutando eventuali aspetti penali, mentre le
cronache rovesciano sulle pagine dei giornali una cascata di episodi analoghi e
ben più gravi, compresi stupri di bambini, che si succedono dovunque.
Più che sulla
repressione e punizione di tali abiette violenze, la discussione, in questi
casi, si accende sul «ricupero» e la rieducazione dei colpevoli, sulle motivazioni
(prossime o lontane nel tempo) dei loro gesti, sugli aspetti socio-
psico-pedagogici e via di seguito, non senza compiacimento di denunciare la
nequizia dei tempi, la decadenza dei costumi e dei valori, la società sempre
falsa e bacata. «Vogliamo un confronto diretto con loro, parlare, capire le
ragioni di quella violenza», si è affrettato a dire qualcuno, riferendosi al
quartetto dell'Istituto di Torino. Tutto ciò è giustissimo; capire un fenomeno
aberrante è indispensabile per poterlo combattere e inoltre ognuno, anche
l'autore di reati ben più gravi e perfino di crimini efferati, deve essere
ascoltato, difeso nella sua dignità e tutelato nei suoi diritti; il suo
comportamento delittuoso va compreso, anche se ovviamente non per questo
assolto. Ma la cultura del «parliamone» rischia talvolta di tradursi in una
verbosa retorica, in un'involontaria e involontariamente comica parodia della
democrazia.
Pure chi getta le
immondizie dal finestrino del treno può avere avuto un'infanzia difficile, ma
forse è meglio fargli pagare una multa che offrirgli un corso di buone maniere.
Anzitutto, quando si parla di trasgressioni a scuola, occorre distinguere tra
le ripugnanti violenze — come quella avvenuta nell'Istituto torinese, per non
parlare di altre ancor più gravi — e quella giocosa indisciplina, che
l'insegnante deve impedire, perché tale è il suo ruolo, ma che è il sale della
vita di una classe scolastica, un condimento che rende più saporiti i piatti
forti dello studio. È alquanto buffo accomunare, come è stato fatto, le
immagini di gravi violenze a quelle di uno scolaretto che alle spalle del
professore gli punta contro una pistola giocattolo, una fesseria innocua e
neanche antipatica, che rientra in quella più generale dell'adolescenza,
specialmente maschile, e che sarebbe sciocco prendere sul serio. Non è solo con
la compunta pedagogia o con gli incontri di gruppo che si combatte il cancro
della gregaria ed ebete violenza latente in ognuno di noi.
Al ginnasio, ad
esempio, ho imparato credo per sempre il senso della giustizia e il disprezzo
del male da un singolare insegnante di tedesco, discutibile nei metodi ma geniale
nel farci capire le cose essenziali della vita. Anche nella nostra classe
c'era, come in molte, la vittima, un ragazzo che non sapeva reagire alle offese
ed era l'oggetto di quell'inconsapevole ma non perciò meno colpevole crudeltà
che c'è in ognuno di noi e che, se non è arginata dalle tavole di una legge
esterna o interiore, si accanisce su chi in quel momento è debole. Nessuno di
noi era innocente nei suoi confronti e nessuno di noi si accorgeva di essere
colpevole. Un giorno, mentre il professore insegnava la coniugazione dei verbi
forti, il vicino di banco — chiamiamolo Sandrin — di questo ragazzo gli prese
d'improvviso la penna stilografica e la spezzò in due. Vedo ancora il volto
della vittima diventare rosso e sudato, gli occhi riempirsi di lacrime per
l'umiliazione e la consapevolezza di non essere in grado di reagire.
Interrogato dall'insegnante sul motivo del suo gesto, Sandrin rispose: «Ero
nervoso… e io quando sono nervoso non so controllarmi… sa, sono fatto così, è
il mio carattere». Con nostro stupore, il docente replicò: «Capisco, sei fatto
così, è il tuo carattere, non si può fartene una colpa, è la vita» e riprese la
lezione.
Dopo un quarto d'ora,
cominciò a lamentarsi dell'afa, a slacciarsi la cravatta, ad aprire e a
richiudere con fracasso la finestra, a dire che aveva i nervi a fior di pelle,
finché, simulando un accesso di furore, afferrò le penne e le matite di Sandrin,
spezzandole e scaraventandole in aria e per terra. Alla fine, fingendo di
calmarsi, si rivolse a Sandrin: «Scusami, caro, ho avuto un attacco di nervi,
io sono fatto così, è il mio carattere, non ci posso far niente, è la vita…» e
riprese con i verbi forti. Oggi quella grande lezione non sarebbe possibile,
con tutti i consigli di classe e gli organi assembleari. Ma è da quella volta
che ho capito come la forza, l'intelligenza, la stupidaggine, la debolezza
siano situazioni e parti che, prima o dopo, capitano a tutti. Bisognerebbe far
capire a quei quattro (e a tanti altri come loro, a tutti noi) che la loro
vigliaccata è stata, più che malvagia, imbecille e che un giorno si troveranno
anch'essi a essere disabili rispetto a qualcun altro altrettanto stupido e
brutale con loro quanto essi con quel loro compagno che, in quella circostanza,
è stato l'unica persona civile e intelligente, ossia superiore, di tutta la
classe.
Quel copione di
violenza si ripeterà, in chissà quali forme e chissà quante volte, con attori
sostanzialmente identici sotto le diverse maschere. Contro la stupidità, ha
scritto Schiller, anche gli dei combattono invano. Forse perché siamo in tanti
ad essere affetti da questa forma vile e violenta di stupidità; un esercito
straccione, una massa indistinta e anonima, che sarebbe problematico trattare
con una terapia di gruppo.
E questo è tutto, passiamo alla musica.
Un brano di Pergolesi, il Concerto per Flauto in Sol maggiore eseguito da James Galway e dai Solisti Veneti diretti da Claudio Scimone.
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