Alla fine, forse, i conti riusciremo anche a metterli a
posto e ce la faremo a ridare fiato alla nostra economia, ma non ce la faremo a
tenere la testa fuori dalla massa melmosa del ridicolo che da anni inonda il
Paese grazie alla classe politica e ai burocrati.
Ieri, sul Corriere della Sera, Erika Dellacasa descriveva la
situazione paradossale che si è creata in Liguria a seguito dello slittamento
delle elezioni regionali: http://archiviostorico.corriere.it/2015/marzo/30/Liguria_consiglieri_casa_stipendio_resta_co_0_20150330_e36ce592-d69d-11e4-878a-89aec9a80d2b.shtml.
Buona stampa. La tentazione sarebbe di non commentare, così
da preservare le coronarie, ma non si può non dir nulla di fronte a una simile
enormità. Se il consiglio regionale è decaduto e la giunta non può più operare,
allora non capisco perché dobbiamo pagare chi ne fa parte. Non c’è nessuna
logica. Se, come sostengono i saggi (si fa molto per dire) burocrati regionali,
i due principali organi politici regionali non possono svolgere i propri compiti perché è come se non esistessero più, allora non esistono
neppure i presupposti per i generosi stipendi dei componenti degli organi stessi. Che poi non
uno, non uno soltanto di questi signori e signore, abbia sentito il dovere di
rinunciare a un emolumento non meritato non stupisce. Come dimenticare
l’inchiesta sui rimborsi ai consiglieri regionali liguri?
Cambiamo argomento. Ritorniamo sulla complessa operazione
finanziaria che consentirà al gruppo cinese ChemChina di acquisire il controllo
della Pirelli. Salvatore Bragantini, uno dei commentatori che preferisco in
materia finanziaria e industriale, ha scritto un articolo apparso ieri sull’inserto
del Corriere della Sera dedicato all’economia. Il pezzo non è disponibile sul
sito, quindi l’ho acquisito con lo scanner.
Buona stampa. Riprendo alcune osservazioni di Bragantini: “Il tema vero non è l’italianità, ma un
altro; nell’interesse di chi è governata l’impresa, dell’impresa stessa, o dei
suoi controllanti? Grava sulle nostre aziende un handicap pesante: i gruppi di
controllo fanno di tutto per mantenerlo, ma nel contempo vogliono la
diversificazione del portafoglio, che nella maggior parte dei casi quel
portafoglio ha svuotato. Non è stanca litania ricordarlo: ne soffre l’impresa,
ne beneficiano i controllanti”.
Bragantini ha ragione e sottolinea una propensione purtroppo
abbastanza diffusa tra gli imprenditori italiani, soprattutto quelli di
maggiori dimensioni, negli anni dello sventurato processo di privatizzazione
della fine del secolo scorso. La ricerca di nuove attività in mercati protetti,
che garantivano rendite sicure, ha spinto molti grossi nomi a trascurare la
propria impresa originaria, sottraendole risorse finanziarie e manageriali.
Pensiamo allo sperpero di risorse delle successive scalate di Telecom e al
bagaglio di debiti che hanno lasciato in carico alla società. Ci sono, poi, i
casi di famiglie proprietarie di aziende che semplicemente hanno passato la
mano, accogliendo con entusiasmo le offerte di acquisto arrivate
prevalentemente dall’estero: Loro Piana, Bulgari, Safilo, Valentino, Ducati i
primi nomi che mi vengono in mente. Tutte aziende leader nei propri settori,
aziende che, in qualche caso, avrebbero potuto assumere il ruolo di predatori,
ma la proprietà ha preferito quello più facile e più remunerativo della preda.
Accanto a questi casi, che comportano, secondo me, una
valutazione complessivamente negativa, ne esistono per fortuna altri che
dimostrano l’elevato dinamismo di tanti imprenditori italiani. L’argomento
trova spazio sulla stampa in questi giorni, com’è naturale dopo l’operazione
Pirelli. Vi segnalo due pezzi, uno dal Corriere (http://www.corriere.it/economia/finanza_e_risparmio/notizie/affari-non-solo-usa-brasile-l-italia-vince-contropiede-055de042-d780-11e4-82ff-02a5d56630ca.shtml)
e uno dal Sole 24 Ore (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-03-31/la-crisi-non-ferma-predatori-italiani-074416.shtml?uuid=ABfgH7HD&fromSearch).
Buona stampa. Se Tronchetti Provera si lamenta dei lacci e
lacciuoli, vien da chiedersi cos’abbiano in testa i suoi colleghi di Campari o
di Luxottica? Per loro lacci e lacciuoli non ci sono? Io una risposta ce l’ho:
sono due modi diversi di intendere il ruolo dell’impresa e quello
dell’imprenditore, oltre che il senso di responsabilità a esso associato.
Con questo non voglio negare il ruolo dello Stato e
nascondere l’effetto disincentivante, ad esempio, dell’ipertrofia legislativa,
della corruzione e dell’inefficienza del sistema giudiziario, ma osservo che
c’è chi affronta i problemi e li risolve. E chi preferisce passare alla cassa.
Chiudiamo ricordando un paio di anniversari. Il primo riguarda la
Tour Eiffel, che, come segnala sul suo profilo Facebook il mio amico Dario
Marenesi (https://www.facebook.com/dario.marenesi?fref=nf),
veniva aperta il 31 marzo 1889.
Il secondo consente anche di continuare la nostra battaglia,
perché in questi giorni cade il cinquantenario della pubblicazione di uno
storico album di Herbie Hancock, Maiden
Voyage (http://en.wikipedia.org/wiki/Maiden_Voyage_%28Herbie_Hancock_album%29). Si tratta di una vera pietra miliare del jazz, realizzata con il gruppo di formidabili strumentisti elencati su Wikipedia, allora ci concediamo un paio di ascolti.
Il primo brano è quello che da il titolo all'album.
Il secondo pezzo è Dolphin Dance. E mi fermo qui, anche se vorrei davvero continuare.
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