Non sarà il mio scritto più allegro, ma non si può sempre
scherzare (e io, credo, lo faccio già di rado).
L’editoriale del Corriere della Sera di oggi è firmato da
Ernesto Galli della Loggia, che, come fa da qualche tempo, spara ad alzo zero
contro i politici (dobbiamo essergliene grati) e dipinge la realtà senza
cambiare i colori o sfumare i dettagli. Ecco l’articolo: http://www.corriere.it/politica/15_marzo_26/pd-roma-l-etica-ormai-perduta-catastrofe-una-intera-citta-d6f6766a-d38d-11e4-9231-aa2c4d8b5ec3.shtml#.
Buona stampa. Mi piace evidenziare soltanto poche parole: “Servizi pubblici che un sindaco di
memorabile nullità — Gianni Alemanno — affidò solo pochi anni fa a dei veri
gaglioffi, capaci di assumere in poco tempo oltre mille, dicesi oltre mille,
tra parenti, amanti, mogli e amici”.
E sottolineare un punto che Galli della Loggia (per ovvie ragioni di spazio) sfiora soltanto: quello che accade a Roma accade anche altrove. La classe politica è formata quasi ovunque dal peggio della popolazione e quasi ovunque agisce con motivazioni che poco hanno a che fare con il bene collettivo. I vigili urbani “lavorano” nelle altre città poco più e poco meglio che a Roma. E mi fermo qui per voi e per me, per evitare pericolose impennate della pressione arteriosa.
Passiamo a parlare brevemenete dell’aereo caduto in
Provenza. Già ieri, leggendo di come si erano svolte le ultime fasi del volo,
mi ero chiesto se i passeggeri si fossero resi conto di quel che accadeva,
sgomento di fronte all’ipotesi che gli ultimi minuti delle loro vite fossero
trascorsi nell’attesa che l’aereo si schiantasse. E avevo vivamente sperato che
ci fosse stata, come per l’incidente del volo Helios qualche anno fa (http://it.wikipedia.org/wiki/Volo_Helios_Airways_522),
una depressurizzazione e che la mancanza di ossigeno avesse reso incoscienti tutti
i passeggeri o gran parte di loro (a bordo dell’aereo greco uno dei membri
dell’equipaggio era vivo e cosciente, tanto da aver cercato di pilotare
l’aereo). A quanto pare, sul volo Germanwings non è andata così. E’ altamente
probabile che tutti i nove minuti del lento avvicinarsi all’impatto siano stati
vissuti uno dopo l’altro nell’angoscia da parte di passeggeri e equipaggio.
Questo mi lascia letteralmente attonito.
Cambiamo argomento, ma restiamo in temi che inducono a tutto
tranne che al sorriso. Sto leggendo il libro Il grande califfato di Domenico Quirico, l’inviato de La Stampa
rimasto a lungo prigioniero dei combattenti islamici in Siria. Anche se non mi
convince lo stile, si tratta senz’altro di una lettura molto interessante:
Quirico ripercorre (senza rigore cronologico, ma questo tiene viva
l’attenzione) lo sviluppo dei vari gruppi fondamentalisti e ne illustra le
diverse caratteristiche mentre spiega come, lentamente, abbiano finito per
prevalere quasi ovunque quelli legati al Califfato di Al-Baghdadi.
Vale la pena di leggerlo, anche perché chiarisce alcuni
elementi del complicato intreccio tra politica e religione che sta alla base
del “nuovo” fondamentalismo islamico.
E perché descrive con straordinaria efficacia, e non di rado
molto crudamente, le conseguenze per le popolazioni civili dei paesi coinvolti
dal diffondersi dell’estremismo islamico. Ne riporto due brani, con una
precisazione. Si tratta di due brani che prendo da un capitolo in cui si parla dei
cristiani dell’Iraq, ma questo non ha nulla a che fare con la scelta: scelgo le
parole, non la religione delle vittime, anche perché, come ben spiega Quirico,
le vittime del califfato sono di tutte le religioni, e, per numero, prevalgono
i musulmani.
La prima citazione sono le frasi di un vecchio cristiano che
attendeva la morte nel suo villaggio: “Ibrahim
si fa chiamare il nuovo califfo, Ibrahim il nome arabo di Abramo, santo a tutte
le fedi! Che oscenità, queste mummie superstiziose… per loro Dio è un libro e
gli uomini una cosa cui non hanno mai pensato”. (pag. 73).
La seconda è una descrizione agghiacciante. Eccola: “I bambini, i bambini cristiani di Arbil:
hanno manine piccole che cominciavano ad acciuffare le cose; e vocette che
scalfivano simili a schegge di vetro i rumori consueti della casa. Credevano
che fosse un gioco quando li presero dai letti, a mezzanotte, e gli altri già
sfondavano gli usci. Se non avessero sentito la mamma urlare più del giorno che
li partorì. Allora si sono messi a piangere, e anche ora piangono nascondendo i
volti dietro i fogli dove si spiega come fare attenzione a mine e oggetti
esplosivi. Non vogliono che li guardiamo, che facciamo loro fotografie, i primi
bambini al mondo che non vedo affascinati, curiosi. Hanno capito chiaramente
che si trattava di questo, di morire. La morte è stata per loro come un cuneo
di verità nel soffice non sapere dell’infanzia”. (pag. 73-74).
Oggi sento ancora più forte il bisogno di continuare la mia
battaglia contro i nemici della musica e della cultura. E scelgo un lungo brano di Arvo Pärt: Silentium.
Nessun commento:
Posta un commento