Da alcuni giorni, mentre si avvicina la data della possibile quotazione in borsa di Veneto Banca, si parla molto del progetto di un gruppo di imprenditori e cittadini dell’area di maggiore radicamento dell'istituto veneto, di cui erano già soci.
Ecco come presenta la situazione un articolo di Katy Mandurino su Il Sole 24 Ore di oggi: http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-06-10/veneto-banca-soci-puntano-superare-50percento-063704.shtml?uuid=ADri2eZ.
Cronaca. Con un paio di blandi, ma apprezzabili tocchi di ironia.
A me interessa soprattutto un punto. Bruno Zago dice (riporto il virgolettato): “Continuiamo a raccogliere intenzioni e considerazioni dai soci che ci fanno ben immaginare di andare oltre il 50%, ipotizzando addirittura di raggiungere i 550, 600 milioni di euro. Noi vogliamo solo una cosa: che la banca resti in Veneto”.
Personalmente non mi esporrei sulla capacità di mobilizzare 550/600 milioni in base a intenzioni e a considerazioni. Vorrei impegni scritti e, possibilmente, anche qualche forma di anticipo. Forse, però, le mie opinioni sono datate…
Vengo, perciò, al punto. Bruno Zago e i suoi compagni vogliono solo che Veneto Banca resti in Veneto. Non importa come, con quali dimensioni, con quali obiettivi, con che redditività, con quale organizzazione. Evidentemente per loro questi sono aspetti secondari. L’importante è che la “cosa” resti dov’è. Di proprietà di molti tra coloro i quali, ancora pochi mesi fa, non volevano separare i destini di Veneto Banca da quelli delle persone che l’hanno condotta al baratro, dal quale si sta oggi cercando a stento di salvarla, utilizzando anche denaro pubblico (Cassa Depositi e Prestiti, come le fondazioni bancarie che ne possiedono una grossa fetta, sono, al di là dell’apparenza formale che consente di escluderle dal bilancio dello stato, entità pubbliche).
Resto molto perplesso di fronte all’iniziativa della cordata guidata da Zago. In primo luogo perché è proprio il legame con il territorio la causa delle crisi di quasi tutte le banche entrate in difficoltà negli ultimi anni. Un radicamento che ha dato luogo a rapporti quanto meno torbidi, quando non propriamente illeciti, tra gli istituti di credito e i clienti e i soci. Il campanilismo è stata la bandiera agitata dagli amministratori per coinvolgere il territorio nelle proprie avventure, insieme a rendimenti fuori mercato (sia in termini di dividendi che di incremento di valore delle azioni). E la frequentazione delle medesime piazze e dei medesimi circoli ha favorito la formazione di consigli di amministrazione certo non inclini, per amicizia o per incompetenza o per le remunerazioni generose o per tutti e tre questi aspetti, a sindacare con efficacia l’operato del presidente piuttosto che quello del direttore generale.
In secondo luogo perché, nel caso specifico della cordata che vorrebbe conquistare Veneto Banca, mi pare si tratti di operazione sulla quale si dovrebbe pretendere chiarezza da parte delle autorità di vigilanza. E’ vero che non ci troviamo in presenza di una scalata in borsa, quindi di un’operazione soggetta a una precisa normativa. E, tuttavia, in caso di esito positivo dell’operazione, il controllo di Veneto Banca sarebbe nelle mani di un gruppo che non ha spiegato pubblicamente le proprie intenzioni e le proprie modalità di agire in maniera formalizzata e trasparente.
La vigilanza del mondo bancario e di quello societario, ho già scritto altre volte, non è poi così occhiuta.
E anche la stampa, purtroppo, fa il proprio dovere soltanto in parte, come dimostra il fatto che, pur dando conto da tempo delle difficoltà delle diverse banche ora apertamente in dissesto (oltre a Veneto Banca ci sono Banca Popolare di Vicenza, Banca Etruria, Carife, Carichieti, Banca Marche), non ha in alcun modo criticato e tenuto sotto pressione chi avrebbe, forse, potuto impedire che le crisi diventassero tanto drammatiche da comportare le pesanti perdite subite dai risparmiatori, soci o obbligazionisti che fossero.
Sul tema del rapporto tra stampa e investimenti, vi suggerisco la lettura del testo pubblicato ieri da Roberto Plaja sul suo blog theboxisthereforareason: http://www.theboxisthereforareason.com/2016/06/09/specchietto-retrovisore/.
Le considerazioni di Roberto non sono strettamente riferite all’Italia, anzi, sono motivate maggiormente dalla conoscenza dell’atteggiamento della stampa internazionale che di quella italiana. E, tuttavia, a me pare che in Italia la stampa abbia rinunciato più che altrove al compito di controllare il comportamento della classe dirigente e di pressarla affinché corregga i propri errori o eviti di commetterne.
Se poi ci addentriamo nel tema specifico del modo in cui si parla della tematica finanziaria e si vorrebbero offrire strumenti di valutazione ai risparmiatori, in Italia sono ben pochi i giornalisti che, oltre alla competenza, possiedono anche la determinazione a sottrarsi a tutti condizionamenti che possono esercitare sia il potere politico che quello finanziario, tanto più forti perché innestati nel capitalismo di relazione che tuttora avviluppa il paese.
Anche l’ascolto di oggi lo scelgo nell’ambito del jazz. Vi propongo una voce relativamente giovane, quella di Sinne Eeg, brillante cantante danese (https://en.wikipedia.org/wiki/Sinne_Eeg). Il brano che ascoltiamo è What A Little Moonlight Can Do.
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