Uscita dall’edificio principale del CDC, Sara si diresse verso l’auto che aveva preso a nolo un paio di giorni prima, dopo aver venduto quella acquistata oltre tre anni addietro, al suo arrivo ad Atlanta per il progetto di studio concluso da circa un mese. Si era trattenuta un po’ più a lungo per soddisfare la richiesta del responsabile del gruppo di lavoro di cui aveva fatto parte: sentiva un debito di riconoscenza verso Per Andersen, il ricercatore di origine danese grazie al quale aveva ottenuto il contratto con il centro di ricerca probabilmente più famoso al mondo nel settore delle malattie infettive e dei virus. Sara aveva stabilito di specializzarsi in quel campo ancor prima di iscriversi alla facoltà di medicina a Milano e, con altrettanta determinazione, aveva creato le condizioni per entrare a far parte della squadra di Andersen.
Non era stato facile per lei resistere all’insistenza con cui le avevano chiesto di restare definitivamente o, almeno, di prolungare di qualche anno la permanenza ad Atlanta, ma era stata irremovibile: il suo percorso non prevedeva deviazioni, neppure temporanee.
Al solo avvicinarsi di Sara, l’auto aprì lo sportello e, quando fu seduta, lo chiuse, quindi si predispose a partire, chiedendo con voce metallica la conferma della destinazione.
“Sì, aeroporto.”
La vettura si mise in movimento silenziosa, mentre Sara reclinava leggermente il sedile e si rilassava, soddisfatta di non doversi occupare della guida nel traffico congestionato. Chiuse gli occhi e li aprì solo quando il battito del cuore fu tornato normale. Piegò la testa di lato e guardò la borsa posata sul sedile accanto: poteva vedere la piccola busta gialla che aveva recuperato pochi minuti prima dallo sgabuzzino adiacente al proprio studio, al sesto piano del CDC. L’origine dell’ansia provata negli ultimi venti minuti, fino a quando aveva superato il controllo del servizio di sicurezza ed era uscita dall’edificio. Origine, però, anche dell’eccitazione che ormai la pervadeva da giorni, dal momento in cui aveva acquistato il biglietto per ritornare in Italia.
Guardò la fila di auto davanti alla propria e si strinse nelle spalle. Non aveva fretta: il suo volo sarebbe partito oltre due ore più tardi, un tempo superiore a quello che avrebbe impiegato il velivolo suborbitale per raggiungere Milano.
Come altre volte, Sara pensò con un vago rimpianto ai lunghi voli dei jet divenuti obsoleti nell’ultimo decennio: lei era sempre riuscita a dormire profondamente e qualche ora di sonno era quel che avrebbe desiderato più di ogni cosa in quel momento, sia per recuperare il riposo perduto la notte precedente a causa della cena di commiato con i compagni di lavoro sia per cancellare dal proprio corpo anche le ultime tracce della tensione intensa provata pochi minuti prima.
Ancora si strinse nelle spalle e sorrise. Il sonno non era così essenziale, quel che contava era la busta nella borsa e, più ancora, ovviamente, il contenuto dei tre sacchetti di plastica sigillati che Sara aveva collocato al suo interno quasi tre mesi prima.
Sollevò le mani e le strinse attorno al volante dell’auto e iniziò a fingere di guidare, accompagnando i gesti con la voce che riproduceva il rumore di un motore, non diversamente da come aveva fatto tante volte con Ruggero, il fratello minore, morto ventuno anni prima, ucciso da una forma particolarmente aggressiva di morbillo.
Il ricordo della morte di Ruggero era nitido nella sua memoria, anche se scomposto in tre momenti precisi. Il primo si esauriva nelle ore in cui il fratello aveva manifestato i sintomi della malattia. Poi i giorni trascorsi a casa dei nonni materni, giorni convulsi, durante i quali Sara era stata condotta più volte nell’ambulatorio di un medico che le aveva somministrato vari farmaci sia per bocca sia con iniezioni. Infine, c’era stato il funerale, con la bara bianca coperta di fiori pure bianchi. Lei non aveva pianto, era rimasta immobile tra i genitori, senza mai distogliere lo sguardo dalla cassa che conteneva il fratello al quale, dopo i primi mesi segnati dalla gelosia di primogenita, si era legata con affetto e complicità incrollabili.
Ci vollero pochi minuti perché il padre tradisse i primi segni del dolore: un susseguirsi di smorfie, lamenti, spasmi che facevano sussultare il corpo, forte sudorazione e occhi improvvisamente arrossati e lucidi. La madre resistette poco di più, giusto il tempo per mostrarsi preoccupata per le condizioni del marito, accanto al quale sedeva sul divano nel salotto della casa in cui Sara e i genitori si erano trasferiti dopo la morte di Ruggero.
Sara, in piedi davanti a loro li osservava impassibile, indifferente alle loro richieste di aiuto. Si scoprì più fredda e distaccata di quanto avesse immaginato per anni, da quando il suo disegno aveva iniziato a formarsi, determinando ogni sua scelta di vita. Non tanto indifferente, tuttavia, da trascurare l’attenta osservazione delle loro condizioni, preoccupata di perdere il momento giusto per dire le parole che aveva ripetuto innumerevoli volte, quelle della sentenza senza appello che aveva pronunciato dopo aver scoperto che Ruggero era morto perché i genitori avevano deciso di non sottoporlo a nessuna vaccinazione.
“Anche se lo volessi, non potrei aiutarvi - disse lentamente quando comprese che potevano perdere conoscenza da un momento all’altro - Quello che vi sta uccidendo è una combinazione di virus che ho attentamente creato per voi, assicurandomi che vi procurassero un’adeguata dose di sofferenza… Purtroppo nulla di paragonabile a quello che ha patito Ruggero. Per farlo avrei dovuto usare ceppi virali diversi da quelli che stanno agendo dentro di voi, ceppi virali che non sarebbero stati controllabili. E io non voglio che altri vengano infettati oltre a voi… No, ho fatto venire al mondo quelle minuscole creature e le ho accudite soltanto per voi… assicurandomi che potessero agire con la massima violenza e che non esistesse alcuna possibilità che fossero fermati dalle vaccinazioni cui, da bambini, voi siete stati sottoposti. Voi… Questa è la vostra condanna, non troppo diversa da quella che voi avete inflitto a Ruggero.”
Un po' presuntuosamente, ho deciso di esprimere con un racconto quel che penso riguardo alla decisione di non sottoporre i figli alle vaccinazioni che, in anni recenti, si è andata diffondendo.
Sul tema, tra i molti articoli che ho letto, vi propongo un pezzo di Gilberto Corbellini e Alberto Mantovani pubblicato da Il Sole 24 Ore due giorni fa: http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-10-23/i-vaccini-sono-utili-e-bisogna-dirlo-chiaro-083400.shtml?uuid=AChaVwLB&fromSearch.
Buona stampa. Alla quale non intendo aggiungere nulla.
Oggi ascoltiamo un breve brano di Ray Charles, grande voce della musica americana, ingiustamente assente fino a ora. Il pezzo che ho scelto s'intitola Get On The Right Track. E, come accade spesso in questo blog, non si tratta di una scelta casuale.
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