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sabato 11 agosto 2012

Vatti a fidare...


Domenica scorsa vi avevo segnalato un ottimo articolo di Fareed Zakaria tratto dal Washington Post e mi ero permesso di indicarlo come un valente giornalista, sottolineando il suo eccellente curriculum.
Ieri, dopo aver pubblicato un articolo nell’edizione on line di Time Magazine, Zakaria è stato costretto ad ammettere di aver copiato pezzi di un articolo scritto da Jill Lepore per la rivista The New Yorker.
Qui potete trovare l’articolo in questione, comprensivo di ammissione di colpa di Fareed Zakaria e seguito dalla nota con cui Time annuncia di averlo sospeso:
Anche la CNN, di cui Zakaria è (era?) collaboratore, ha deciso di sospenderlo: http://cnnpressroom.blogs.cnn.com/2012/08/10/cnn-statement-on-fareed-zakaria/?iref=allsearch.
Buona stampa. Quella rappresentata da testate che con grande sollecitudine decidono di punire un collaboratore famoso per un plagio.
Mala stampa. Quella rappresentata da Fareed Zakaria, che ha rinunciato a un gesto così semplice come la citazione della fonte.
Riprendo un passo della nota con cui Time ha annunciato la propria decisione:
…what he did violates our own standards for our columnists, which is that their work must not only be factual but original; their views must not only be their own but their words as well.
Ok, dovevano salvare la faccia e mettere una bella distanza tra loro e Zakaria, però sono parole che piace leggere.
Questo è il link al pezzo originale di Jill Lepore:
Buona stampa.
Un pezzo lungo, ma scritto in un inglese comprensibile e scorrevole, grazie al quale potrete capire meglio perché negli Stati Uniti è così facile poter disporre di armi da fuoco e servirsene per stragi come quella recentissima di Denver o quella, più lontana nel tempo, di Columbine descritta anche da Michael Moore in un suo celebre film.

domenica 5 agosto 2012

Uomini che ci arricchiscono


Il Corriere di oggi ospita un intervento di Fareed Zakaria, giornalista cittadino americano, ma nato in India da genitori musulmani, un esperto di politica con un curriculum impressionante (che potete trovare su wikipedia inglese a questo indirizzo: http://en.wikipedia.org/wiki/Fareed_Zakaria).
L’articolo non è disponibile al momento sul sito del Corriere, ma si può leggere su quello del Washington Post, il quotidiano americano che lo ha pubblicato per primo qualche giorno fa (http://www.washingtonpost.com/opinions/fareed-zakaria-capitalism-not-culture-drives-economies/2012/08/01/gJQAKtH9PX_story.html). Ovviamente è in inglese, ma proprio nella versione originale si apprezza la chiarezza dell’esposizione, la forma di una sostanza solida e molto interessante.
Buona stampa.
Anche noi abbiamo un gran numero di persone di grande cultura che scrivono sui giornali, eppure si fa fatica a trovare qualcuno che sappia esprimersi con la semplicità e la sintesi dei pezzi di Zakaria. E quando ciò accade, come, ad esempio, nel caso di Luigi Zingales o di Francesco Giavazzi, è difficile non pensare che entrambi hanno svolto una parte significativa della carriera negli Stati Uniti.
Nel mondo anglosassone, almeno nella maggior parte dei casi, manca quel compiacimento, tipico di alcuni nostri giornalisti o opinionisti, nell’usare termini complessi o tecnicismi di difficile comprensione per la maggior parte dei lettori. O la propensione a scrivere pezzi lunghi, in cui si affrontano argomenti anche poco connessi tra loro, quasi si trattasse di un saggio e non di un articolo di giornale.
Sia chiaro, non voglio dire che il nostro giornalismo sia peggiore di quello anglosassone, anzi. Mi pare, tuttavia, che anche nel modo in cui vengono realizzati i nostri quotidiani si manifestino alcuni nostri difetti ormai consolidati. Non faccio nomi, ma ne ho in mente parecchi.
Mi fermo qui, almeno per quel che riguardo stampa e notizie. Siccome è domenica, però, mi permetto di rubarvi qualche altro istante e vi suggerisco un meraviglioso brano musicale, un vero capolavoro di due straordinari suonatori di kora (http://it.wikipedia.org/wiki/Kora): Ballakè Sissoko e Tounami Diabatè, entrambi originari del Mali, un paese verso il quale, musicalmente, credo che l’occidente sia in debito, e non poco. Il brano s’intitola Kanou.