venerdì 16 dicembre 2016

Italianità delle imprese

In questi giorni i nostri mezzi di comunicazione hanno attribuito e attribuiscono molto spazio a due operazioni finanziarie nelle quali aziende francesi hanno acquisito o tentano di acquisire aziende italiane.
Si tratta, in realtà, di situazioni molto diverse tra loro, il cui unico elemento in comune è che, nel ruolo di compratore, si trova una società francese e l’oggetto dell’acquisto è un’azienda italiana (o meglio: apparentemente italiana, almeno in un caso).
Inoltre, da un lato abbiamo un’operazione i cui dettagli sono quasi tutti chiari e definiti, dall’altro una ancora in evoluzione e di carattere differente. Alludo, come voi tre avete già compreso, alla vendita, da parte di Unicredit, di Pioneer Investments ad Amundi e alla cosiddetta scalata di Mediaset da parte di Vivendi.
Sono, ripeto, vicende assai diverse e questo è sufficiente a indurmi a non trattarle insieme: per oggi, dunque, ci occupiamo della vendita di Pioneer Investments.
Parlare, come qualcuno ha fatto, di perdita di un campione nazionale a favore dei francesi è del tutto irragionevole. E, soprattutto, non tiene conto delle condizioni nelle quali tale operazione è maturata.
Guardiamo un po’ più da vicino la presunta azienda italiana Pioneer Investments: è una società nata negli Stati Uniti, per la precisione a Boston nel 1928, attiva nella gestione collettiva del risparmio, acquisita da Unicredit nel 2000 e successivamente integrata nel gruppo internazionale che fa capo all’istituto italiano (http://www.pioneerinvestments.it/societa/storia.html).
Attualmente Pioneer ha la propria direzione a Milano, ma opera in 28 paesi con 2000 dipendenti e amministra investimenti per circa 230 miliardi di euro.
Per avere un’idea del suo peso nel mercato mondiale della gestione collettiva del risparmio, si può consultare la classifica delle maggiori società elaborata da Investments & Pensions Europe, un osservatorio di settore britannico. Questo è il collegamento per scaricare il loro ultimo rapporto sulle prime 400 imprese: https://www.ipe.com/Uploads/j/t/t/Top-400-2016.pdf.
Come si può osservare, in base ai dati di bilancio del 2015, Pioneer Investments occupava la 61ma posizione, con dimensioni pari a un ventesimo rispetto al “primo della classe”, ossia BlackRock, e a circa un quinto rispetto ad Amundi, la società di cui entrerà a far parte in seguito alla cessione da parte di Unicredit. 
Si può ragionevolmente osservare che, in un mercato che si fa pian piano più competitivo come quello della gestione del risparmio, Pioneer non possedesse la massa critica per mantenere livelli di redditività tali da giustificare la permanenza nel gruppo Unicredit.
Va, inoltre, considerato che, sia pure lentamente, il settore sta cambiando. Anche gli istituti bancari maggiormente impegnati nella gestione dei patrimoni (il cosiddetto Private Banking) hanno rinunciato alla politica, seguita fino a pochi anni fa, di collocare presso i clienti i prodotti delle proprie società di asset management e stanno progressivamente aumentando il collocamento di fondi comuni e sicav gestiti da altri, tra cui molte società indipendenti, come sono, per esempio, BlackRock e Vanguard, ossia i due maggiori operatori mondiali.
Dunque la decisione di Unicredit di vendere la sua relativamente piccola multinazionale del risparmio gestito appare tutt’altro che irragionevole sotto il profilo strategico. Ci sono, però, altre e più importanti motivazioni per questa scelta.
Pur avendo superato le più recenti verifiche da parte della BCE sulla solidità patrimoniale, Unicredit ha necessità di rafforzarla, anche alla luce della dimensione del portafoglio di crediti inesigibili che detiene.
Giova, a riguardo, ricordare che Unicredit è l’unica banca italiana a rientrare nel novero delle istituzioni bancarie globali di rilievo sistemico (http://www.fsb.org/wp-content/uploads/2016-list-of-global-systemically-important-banks-G-SIBs.pdf), pertanto è oggetto di attenzioni, e probabilmente anche di pressioni, superiori alla media in materia di rapporti patrimoniali.
La vendita di Pioneer Investments, dunque, avviene nel quadro di un più ampio processo di dismissione di partecipazioni da parte di Unicredit che, in questo modo, intende far fronte alla necessità di migliorare i propri indici patrimoniali. Obiettivo perseguito anche con la cessione di un portafoglio di sofferenze e crediti di dubbia esigibilità per circa 17 miliardi di euro lordi.  
Pioneer era “in vendita” da alcuni mesi, per l’esattezza da luglio. Dopo aver cercato, senza riuscire, di trovare un accordo con Santander per fonderla con l’analoga società del gruppo spagnolo, Unicredit aveva avviato la selezione di potenziali compratori. Il processo aveva visto coinvolti, tra gli altri, anche Poste Italiane con Cassa Depositi e Prestiti e Anima e si è concluso in questi giorni con la scelta di Amundi, la cui offerta  è risultata la più vantaggiosa per il venditore.
Si tratta, dunque, di un’operazione svolta in maniera trasparente e intesa a massimizzare l’incasso per Unicredit, così da ridurre la necessità di fondi da reperire sul mercato attraverso un aumento di capitale che, comunque, dovrà effettuare e sarà, probabilmente, di circa 13 miliardi di euro. 
La vendita offrirà anche a Pioneer Investments migliori prospettive: entra a far parte di un gruppo attivo nella gestione del risparmio di maggiori dimensioni, che manterrà a Milano una sede importante. Qualche dettaglio sul tema lo potete trovare in questa nota di AdnKronos: http://www.adnkronos.com/soldi/finanza/2016/12/12/unicredit-vende-pioneer-amundi-per-mld-euro_nEHx0tBKu8W8DDjo71THVN.html?refresh_ce.
Per concludere: parlare di “italianità” di Pioneer Investments e commentare su basi nazionalistiche questa vicenda appare stravagante.
La società ceduta non è mai stata e non è autenticamente italiana e, grazie a questa vendita, Unicredit potrà rafforzare il proprio patrimonio e realizzare un piano industriale che pone l’Italia ancora al centro delle sue attività.
Non basta: il concetto di “italianità” applicato alle banche va considerato come uno dei più pericolosi emersi negli ultimi vent’anni e lo si deve principalmente ad Antonio Fazio, Governatore della Banca d’Italia dal 1993 al 2005, ossia l’uomo che ha di fatto forgiato il nostro sistema bancario attuale e che lo ha fatto sulla base di convinzioni e con metodi i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il passaggio di Draghi a Palazzo Koch, infatti, non ha prodotto significativi cambiamenti nella logica e nelle modalità con cui Banca d’Italia ha controllato il processo di concentrazione del settore bancario. E neppure accresciuto la capacità di vigilare con adeguato rigore. Non mi stancherò di ripetere che le crisi bancarie degli ultimi anni sono frutto della scarsa o nulla incisività dei controlli, che hanno consentito a persone del tutto inadeguate di restare per anni e anni alla guida di banche di dimensioni anche rilevanti. Le crisi di MPS, di Popolare di Vicenza, di Veneto Banca, di Banca Etruria, di Carife e via dicendo non sono affatto casuali.

2 commenti:

  1. e nei prossimi giorni leggeremo cosa pensi della storia mediaset! ciao Marco

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    1. Prima o poi lo farò, per ora mi sembra che si possa fare una battuta: abbiamo Sandokan contro il Corsaro Nero...

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