sabato 2 luglio 2016

Identità di una banca

Nel maggio scorso, non sorprendentemente, Federico Ghizzoni aveva comunicato la disponibilità a lasciare la carica di consigliere delegato di Unicredit (http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-05-24/unicredit-ghizzoni-lascia-si-stringe-successione--233106.shtml?uuid=ADHVfqO&fromSearch), ossia la maggiore banca italiana (anche se le dimensioni devono molto alla rete internazionale, assai presente nei paesi dell’Europa centro-orientale). In base alle sole dimensioni nazionali, Intesa SanPaolo risulta più grande, ma considerata nel suo insieme, Unicredit è superiore, tanto da essere l’unica banca italiana a far parte del gruppo delle G-Sifi (Global Systemically Important Financial Institution, ossia le istituzioni finanziarie sistemiche di rilevanza internazionale), soggette a particolari controlli da parte delle autorità di vigilanza e tenute a rispettare normative più stringenti di quelle in vigore per gli istituti più piccoli. 
Ghizzoni arrivava alla decisione di dimettersi perché, in maniera neppure troppo felpata, alcuni dei maggiori soci (che non rappresentano, però, la maggioranza degli azionisti) lo avevano informato di considerare giunto per lui il momento di farsi da parte.
Unicredit rappresenta un caso esemplare nella storia recente del sistema bancario italiano. Dopo la privatizzazione, il Credito Italiano (Banca d’Interesse Nazionale - BIN - come Banca Commerciale Italiana e Banco di Roma) ha affrontato un rapido processo di trasformazione e crescita, assumendo un ruolo di protagonista sia nella prima che nella seconda ondata del consolidamento del sistema creditizio nazionale e dandosi un orizzonte marcatamente internazionale. 
Dopo l’acquisizione del Credito Romagnolo (1995), nel 1998 il Gruppo Credito Italiano si fonde con il Gruppo UniCredito (questo il nome dell’istituto nato dall’integrazione di Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona, di CassaMarca e di Cassa di Risparmio di Torino) e nasce il Gruppo UniCredito Italiano che l’anno seguente risulta composto da sette banche italiane (Credito Italiano, Cariverona, Banca CRT, CaRiTro, Rolo Banca, CariTrieste, CassaMarca) e dalla prima entità straniera, la polacca Pekao.
Nel 2005 l’integrazione con la tedesca HVB ne fa la prima autentica banca europea. Nel 2007, probabilmente non proprio con entusiasmo, Unicredit si fonde, incorporandola, con Capitalia.
Da questo processo è nata una delle maggiori banche europee, con una diffusa e rilevante presenza nelle nazioni aderenti alla Ue e anche al di fuori di essa. 
Pur essendo la più internazionale tra le banche italiane, Unicredit non ha potuto sottrarsi alle interferenze che caratterizzano il nostro sistema bancario, da sempre oggetto di avido interesse da parte della politica e strumento per la conservazione dello status quo nel mondo finanziario e industriale del paese.
Come ho accennato sopra, la fusione con Capitalia-Banca di Roma, più che una scelta autonoma dei vertici di Unicredit, è stata, probabilmente, frutto della pressione da parte di Banca d’Italia, preoccupata di sistemare l’istituto romano, in cui non tutto quel che riluceva era oro, anzi.
Sono portato a credere che la fusione sia stata accettata, oltre che per adeguarsi all’indicazione della banca centrale, anche per rafforzare la presenza italiana a fronte di quella tedesca. Una presenza, quella italiana, che era (com’è ancora oggi) influenzata dalla politica, poiché espressa attraverso le quote di numerose fondazioni bancarie.
Secondo i dati di pochi giorni fa (http://www.consob.it/main/documenti/assetti_proprietari/semestre1-2016/5046_Az.html?filedate=29/06/2016&sem=/documenti/assetti_proprietari/semestre1-2016/5046_Az.html&docid=0&link=Pie-chart+Capitale+ordinario%253D%252Fdocumenti%252Fassetti%252Fsemestre1-2016%252F5046_TOrdDich.html%253B+Pie-chart+Capitale+votante%253D%252Fdocumenti%252Fassetti%252Fsemestre1-2016%252F5046_TVotDich.html&nav=false) tra i maggiori azionisti di Unicredit ci sono due fondazioni (quella di Verona e quella di Torino), oltre a Blackrock, società di gestione americana, alla Banca Centrale di Libia e al fondo sovrano dell’Emirato di Abu Dhabi Aabar.
Se guardiamo al di sotto della soglia del 2% di capitale posseduto, quella che rende rilevante la partecipazione e che la fa includere nel prospetto di Consob, troviamo altre istituzioni italiane, pubbliche e private, con qualche incrocio non proprio ortodosso, come quello con Mediobanca, di cui Unicredit è uno dei principali azionisti, pur essendo a tutti gli effetti un concorrente.
La crescita di Unicredit è, in parte, causa dell’attuale situazione di difficoltà, origine del malcontento degli azionisti, viziati dalla redditività precedente la crisi del 2008. I dividendi sono mancati o sono stati versati in azioni (e per importi assai inferiori a quelli generosi possibili quando ancora il mercato bancario sembrava destinato esclusivamente a crescere).
Non poteva, però, accadere altrimenti: il consolidamento del sistema bancario italiano è avvenuto a valori spesso assai lontani dalla realtà, non di rado con operazioni pensate per nascondere nelle pieghe di bilanci più solidi le crepe di quelli più fragili. Tanto per intenderci, prima del 2005 uno sportello bancario valeva alcuni milioni di euro, oggi, salvo rare eccezioni, non vale nulla e quasi tutte le banche sono impegnate in processi di razionalizzazione che comportano la chiusura, non l’apertura di filiali. E fino a pochi anni fa, gli sportelli acquisiti a caro prezzo, apparivano ancora tra le voci dell’attivo dello stato patrimoniale, mentre oggi sono stati cancellati, con perdite non trascurabili, non diversamente dal valore delle insegne acquisite, ora in gran parte scomparse.
Un sistema bancario fragile, il nostro, che ha sofferto la recessione seguita alla crisi del 2008 e, soprattutto dopo il 2011, la debolezza di un paese eccessivamente indebitato, i cui governi hanno voltato la testa dall’altra parte non già (o non solo) per evitare apprensione sui mercati, ma perché non volevano affrontare il problema con la necessaria determinazione e, soprattutto, tagliando finalmente tutti i legami tra banche e politica, il cui costo si è scaricato e si scarica tuttora sulla collettività.
Giovedì, il consiglio di amministrazione di Unicredit ha nominato il sostituto di Ghizzoni, scegliendo Jean-Pierre Mustier, un francese con una lunga e solida carriera internazionale, che lo ha visto anche ai vertici di una divisione di Unicredit.
Io mi guardo bene dal valutare la decisione degli amministratori della banca, ma sono portato a pensare che sia stata meditata e dettata esclusivamente dalla volontà di ridare spinta alla gestione dell’istituto, cui serve senz’altro una svolta per superare un frangente non facile. Mi ha, perciò, stupito questo breve commento (presumibilmente di Alessandro Graziani) pubblicato ieri da Il Sole 24 Ore: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-07-01/buona-fortuna-073651.shtml?uuid=ADhXv7l&fromSearch.
Stampa così e così. Tra le righe emerge malumore per la decisione di non affidare la guida di Unicredit a un italiano. Un atteggiamento che non condivido affatto. Sarò vittima di un pregiudizio, ma sono convinto che un amministratore delegato italiano non sarebbe in grado di resistere alle tante pressioni che il vertice di Unicredit, come quello delle maggiori banche italiane, subisce dal mondo politico e dai sedicenti “salotti buoni”.
Mustier può rappresentare la discontinuità necessaria per dare alla nostra maggiore banca il carattere di public company internazionale che, solo, le può garantire di competere sui mercati in cui è presente alla pari con i concorrenti, rispetto ai quali può vantare, nonostante la temporanea debolezza, una considerevole competenza in tutte le attività bancarie e scarsa presenza nei settori meno illuminati dei mercati finanziari, quelli in cui operano istituzioni che nei giorni scorsi hanno ricevuto una patente di pericolosità sistemica da parte del Fondo Monetario Internazionale, come riporta questo articolo de The Financial Times (https://next.ft.com/content/41ff8d80-3ebc-11e6-8716-a4a71e8140b0).
Torno brevemente al commento di Graziani. Come avrebbe reagito Il Sole 24 Ore se un quotidiano britannico avesse accolto in modo analogo la nomina di Vittorio Colao al vertice di Vodafone? Nel mondo ci sono decine di alti dirigenti italiani alla guida di innumerevoli aziende. Occupano quelle posizioni perché capaci e meritevoli. Se fossi Graziani, mi chiederei perché tanti manager italiani hanno preferito una carriera all’estero e perché tanti imprenditori italiani hanno deciso di cedere le loro aziende anziché farne il fulcro di gruppi internazionali proiettati sui mercati mondiali. E mi domanderei anche come mai Confindustria, proprietaria del giornale per il quale scrive, solo da poco mostra di capire che la piccola dimensione delle imprese italiane è tra le cause della nostra crescita insoddisfacente.
Oggi combattiamo con un brano di Philip Glass, compositore contemporaneo americano esponente di punta del minimalismo in campo musicale. Il titolo è The Photographer - 01 A Gentleman's Honor (vocal).


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